giovedì 5 aprile 2012

ORLANDO FURIOSO...SALENTINO

 UN ORLANDO FURIOSO… SALENTINO



“L’Orlando Furioso “ di Ludovico Ariosto , rivisitato ( e rifatto) da  quel fine elegante umanista , critico e saggista , che è  il prof. Luigi Scorrano,  e adattato per la scena dal cast della “ Calandra” , benemerita compagnia teatrale di Tuglie,  alle pendici del Monte Grappa , classica “serra” del  basso Salento , con la sapiente regia di Giuseppe Miggiano , un talentino nato in Lombardia e ritornato nella propria terra a “miracol stupire” con la sua voglia di lavorare , di fare , concretamente ,  sia in senso artigianale ( è un eccellente tipografo) che in quello artistico . Insomma , un Orlando Furioso…salentino.
Stavolta cominciamo dalla… fine . Il pubblico se ne va  soddisfatto e divertito , e lo dimostra,  anche , con un lungo applauso che non è solo di cortesia, un applauso che accomuna tutti , attori, scenografo , elettricista , costumista , e , naturalmente ,  regista e autore ; il pubblico è  grato di aver assistito ad uno spettacolo  che si rifà al teatro popolare antico, ma anche al varietà;  gli  attori  ringraziano con inchini salamelecchi e battimani , maschere spade e pennacchi , dal  loro  carro di Tespi ,  ma potrebbe essere anche il “Bagaglino”, tanto sono intercambiabili ;  mimi, istrioni, saltimbanchi , maschere , che salutano dal carrozzone  della Commedia dell’Arte , ma anche  marionette del teatro  dei pupi  siciliani , o del  teatrino televisivo di “Avanzi”, un pastiche , insomma , in cui non mancano i riferimenti “culti” , le macchiette , i toni farseschi o grotteschi e qualche gratuità, ma senza mai valicare il buon gusto , senza mai scivolare nella volgarità. Del resto, come direbbe Garboli, ognuno ha i suoi classici, le proprie esagerazioni, il proprio solco predestinato, al di là delle paratie dello stabile , delle regole scritte e non del teatro e di quelle della letteratura, ognuno fa il teatro che sa ( e puo’ ) fare, oltre il limite dei tempi , nelle regioni più segrete della fantasia e del paesaggio che sta dentro di noi , di quel fiume segreto che scorre,  incessantemente , e si arresta o si ingrossa a secondo delle più pure casualità, incontri , occasioni fortuite , alleanze improbabili da cui il teatro trae continua linfa e alimento.  Qui più che Ariosto sembrerebbe Moliére, con la rappresentazione di una società in cui tutto è malato , folle , ed essere savi è un assurdo. Infatti lo stesso Orlando  non desidera rinsavire e rimane “furioso”, cioè privo di senno.
Ma facciamo un passo indietro e torniamo all’inizio, a luci in sala ,  sipario chiuso.  Ero vicino a  Luigi Scorrano , e gli dicevo sono   proprio curioso di vedere come hai  fatto a far diventare un  testo teatrale plausibile un  poema di  quarantasei canti e 4842 ottave (d’oro ) , per non parlare dei  quattrocento  et ultra  personaggi che vi compaiono.  Io sono rimasto all’Orlando di Ronconi, alla giostrina coi “cavalieri ,l’arme e gli amori” , ma so che hanno fatto l’Orlando nelle carceri di Volterra e forse anche Eugenio Barba , in piazza tentò qualcosa di simile, coi suoi cento attori di cento paesi…. Lui mi sorrideva con serafica ironia : non è mica vero che io sia il solo autore , loro – e mi indicava dietro le quinte dove erano in tensione gli attori e il regista -  sono coautori . Ed ecco che si accendono le luci  ed è subito zuffa tra  Orlando e Rinaldo, che si disputano l’amore di Angelica . Tutto è sfacciatamente farsesco e ad un certo punto  i due contendenti si mettono a giocare a morra. Tutto è sgangherato, le spade sono  di legno , le corazze di cartone , i cavalli manici di scopa …e via di seguito.  Siamo nel teatro di teatro , in cui una compagnia di guitti  rappresenta  la storia di Orlando e dei paladini di Carlo Magno… Ma intanto ecco che entra  un’ indolente  e annoiata Angelica, - affidata ad un vecchio duca e promessa da re Carlo a chi dei due rivali si mostrerà più prode nella difesa di Parigi ,- che  scappa , si dà alla fuga  e non farà altro che scappare , trovando  alla  fine – lontano da quel “rimbambito” di Carlo Magno e dai suoi paladini fin troppo rispettosi   - l’amore nell’umile fante saraceno Medoro, da lei raccolto ferito e morente e salvato dalle sue affettuose cure. Quando Orlando lo saprà, dal pastore che accolse i due innamorati , impazzirà di dolore e furente e selvaggio porterà terrori e lutti per la Francia , Spagna e Africa , fino a che Astolfo, altro paladino di Carlo, non gli riporterà , dalla luna,  il senno racchiuso in una fiala.  Questa , per sommi capi, la storia che propone il  “poeta dell’armonia”  , che rifiuta i toni estremi o che non li prolunga oltre certi limiti, il poeta del  “misurato sorriso”,  ed è in fondo la stessa storia  che viene riproposta , in maniera però spesso risibile e con un finale …infedele . Per darvi un’idea dello spettacolo teatrale , figuratevi  una specie  di  taverna-stalla - magazzino  dell’usato , con una lanterna magica che proietta immagini talora animate  e distorta. E su questo palcoscenico  quattro attori , di cui uno è scenografo  e fa il  caratterista ,  si moltiplicano per dieci , o per venti , sempre a  forza di magie e…fantasie.  Ma il teatro, si sa,  è tutta una magia. Ed ecco un Federico Della Ducata  (molto maturato)  che fa  un Rinaldo pimpante e fortemente autoironico ,  e poi la marionetta del fante Medoro, ma anche  il  pastore ciociaro ( facendo il verso al primo Manfredi)   che narra del suo amore per la bella Angelica ad un esterrefatto Orlando ; e poi ancora  un Astolfo bolognese che atterra  sulla luna con tuta spaziale alla ricerca di bottiglie d’acqua minerale, un moviolista  delle tenzoni medievali , e  il “fine dicitore” colla voce nasale , alla Gassman,  delle ottave d’oro, ma fa il verso anche a sé stesso , Della Ducata, dimostrando grande duttilità e una buona dose  istrionica , grazie alla  quale riesce  a creare  un feeling con il pubblico ,   momenti  di complicita’ che sono poi, come dicevamo ,  la magia e il segreto del teatro.
  E poi c’è  Antonio Calo’ , un  attore per vocazione (e dannazione) , per il quale il teatro è la vera vita , mentre il resto  è prigionia e catene. Per lui recitare non è solo recitare , ma  è liberarsi dalle catene, uscire di prigione , è essere altri , lasciarsi invadere , indemoniare, possedere da una realtà “autre” , imprevedibile e irrazionale. Ma recitare è anche guardare in sé stessi mentre si finge un altro per scaricare nello spettatore le proprie tensioni, gli umori atrabiliari e le ossessioni della vita e della società di un Argan ,o  la gelosia ossessiva e il senso del proprio ridicolo in un Orgone , come ha dichiarato Gabriele  Lavia; e tutto ciò è curiosamente (quando si entra in Moliere non è mai senza conseguenze) proiettato nell’Orlando di  Calo’ , che non ha la duttilità, né l’agilità di Della Ducata , ma una propria maschera grottesca  , vizio e insieme sofferenza teatrale che si porta dentro di se ed esprime al meglio in quella terra di nessuno che è l’intervallo tra il personaggio e l’attore ,la pausa in cui si guarda se stessi recitare in  quel  luogo di fantasmi , in quel luogo artificiale , assolutamente falso , e pur l’unico vero e reale in cui si consuma la recita. Antonio è  passionale , impetuoso , entusiasta , ingenuo , furente , infantile ,esibizionista e spavaldo ,  sempre uguale a se stesso ,ma fermo ,  tetragono , indefettibile , eroico , nel suo ruolo di” una vita  da mediano”.
Manuela Marrella  è un’Angelica sopra le righe , ovviamente , che recita in falsetto ma con levità , talora  farfalla colorata che si muove  deliziosamente e traccia le sue perfette traiettorie geometriche per il suo disegno finale , ma più spesso si fa ape che punge con l’allusione , il motto  e il pettegolezzo , che è un’arte sottile che s’avvicina molto alla verità ( i pettegolezzi dicono sempre la verità sulle cose che accadono, ma le cose non accadono mai come i pettegolezzi ce le raccontano) , una Mirandolina travestita da Angelica la Bella , che si comporta da donna – ossia da attrice più attrice delle attrici – con tutti i suoi trucchi , malie e sortilegi , ottenendo sempre quel che vuole ( non Orlando , né Rinaldo – sedotti e abbandonati – ma l’amore che è incarnato dall’umile , ma bellissimo Medoro ) Ovviamente la Marrella ci mette – come accennavo – una larga dose di autoironica classica e leggerezza facendo il verso anche a sé stessa attrice .
 Insomma, teatro allo stato  puro  ,in cui forse Ariosto c’entra poco o nulla , ma tradire i classici è da sempre – scrive Garboli –un’opera altamente meritoria e raccomandabile , purchè lo si faccia con coraggio creativo . E a me sembra che Luigi Scorrano , il regista , lo scenografo e gli attori lo abbiano realizzato in modo egregio , coll’idea del carrozzone dei guitti che si ferma su un’ideale  pubblica piazza a raccontare le  imprese e gli amori e le follie di Orlando, per come loro stessi potevano interpretare e concepire.  Non è venuto sicuramente meno lo spazio per la creatività e la fantasia,  anche se gli automatismi non erano sempre perfetti . Siamo nel teatro povero ( aiutatevi con la fantasia, dirà un attore al pubblico) ,  che  sembra  farsi   da solo , con l’aiuto e la collaborazione degli stessi  spettatori , siamo nel  teatro in cui  tutto e’ uguale  e tutto e’ diverso , in cui si assiste ad una specie di progressivo sventramento del testo classico , che si fa f arsa di qua’ e denuncia di là.
Dall’inizio un po’ freddino e sincopato  al parapiglia finale  , quello che si apprezza non è la finzione , ma il gesto; non la trovata scenica (la nudita’ teatrale non so quanto sia voluta ) , ma il gioco; non tanto  il ricordo della commedia dell’arte , quanto una rinascita del teatro  farsesco classico,  in lingua italiana (merce rara) , che si guarda allo specchio e ride di sé stesso; non la metafora dell’ossessione della gelosia , dell’amore tradito , della pazzia, come da copione , ma le perfette simmetrie involontarie ,le  situazioni risucchiate dal ritmo ,il  recupero di acrobazie  da commedia dell’arte , le  leggi esatte di una terra di nessuno che vengono fabbricate sul momento ,non l’ apparizioni di personaggi convenzionali o di dialoghi  che pur conservano il tessuto , il sostrato letterario , ma il meccanismo sperimentato  che si articola docile come un mosaico ad incastro con tempi  buoni e talora ottimi.
Insomma , l’intento e’ quello di far cultura e insieme divertire , cose non facili , un varietà che si nutre di diversi registri , un impianto che cerca la perfezione del ritmo , la distribuzione dei contrattempi, il funambolico  automatismo  che si sostiene alla trama , che sorregge gli equilibrismi sottilissimi della fragile messinscena in cui basta un nulla e tutto fa flop , nel susseguirsi di situazione comiche e grottesche , da teatro flipper
Tutto ciò è frutto della regia di Giuseppe Miggiano , in cui vi sono le caratteristiche peculiari della sua personalità artistica : senso spiccato della creatività  , magìa,  geometria , ordine e insieme trasgressione , debolezza ,  ma anche  dolcezza , autoironia, ma anche amara denuncia di quanto si vada perdendo nel tempo nostro dei Bush e dei Saddam ,  dei genocidi e dei milioni di bambini che muoiono di fame ; e di tutto ciò che attraverso il teatro si vorrebbe recuperare, con gioia , con spirito leggero , in un  trionfo scintillante e scoppiettanti di luci , scherzi e risate , da tenersi per mano , tutti  insieme , attori e spettatori ,  per celebrare la bellezza dell’arte , che è fantasia, magia , poesia

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