sabato 14 aprile 2012

L'avvocato Stevenson e l'isola del tesoro

L’AVVOCATO STEVENSON
E LE ISOLE SAMOA
                                             
                                           Di Augusto Benemeglio
     Robert Louis  Stevenson  nasce a Edimburgo il 13 novembre 1850  in un quartiere residenziale abitato da un prospero  ceto di professionisti.  Vive tutta la sua infanzia e gran parte dell’ adolescenza  in preda a malesseri di vario genere,  stati febbrili e tossi indomabili . Praticamente inesistenti i suoi contatti con il mondo esterno, tranne una parentesi di scuola pubblica  assai traumatica.  Studia in casa, sotto la guida di un tutore.  Ma a partire dai quattordici anni, Robert passa quasi tutte l’estati   nella  parrocchia   del nonno materno , che è un pastore anglicano.
La zona si  trova  in campagna , alle pendici dei monti Pentland ,  un mondo completamente diverso da quello della città .  Robert  ha modo di  frequentare altri giovani, impara a cavalcare e a familiarizzare con la cultura folkloristica scozzese.   E comincia a fantasticare  sulle proprie origini  e le gesta di famiglia,  fino ad immaginarla venuta  in Scozia  coi Vichinghi, o discendente dai Picti, guerrieri scozzesi che combattevano nudi. Ma la figura  che lo affascina  più di tutti  è  quella del nonno paterno , un  grande costruttore di fari. Ne aveva edificati trentatre nei desolati mari del Nord,  in regioni inaccessibili. Il nonno  era un  genio delle’ingegneria , aveva disegnato ponti, scavato porti e canali, inventato  una nuova forma di binari, immaginato strade sul mare, esplorato le coste più sconosciute e selvagge.
Anche il padre di Robert  era un ingegnere  dei fari e fanali, ne costruì ben ventisette, ma non aveva la statura grandiosa e austera del  nonno. Era un uomo  frustrato  ,  perché avrebbe voluto fare lo scrittore e non l’ingegnere, ma suo padre lo aveva costretto  a lasciar perdere la letteratura , una cosa assolutamente  inutile e noiosa.   Così se ne stava   a guardare per ore e ore le onde  degli oceani   per misurarne l’intensità, la forza, il ritmo   e  studiarne  con minuziosa attenzione il momento in cui si spezzavano sulla riva in modi sempre diversi.  In quelle onde spezzate vedeva un po’ il senso della sua esistenza .  “Anche tu  costruirai fari, porti, dighe e segnali marittimi “,  disse  al figlioletto.  Ma il giovane Robert, pieno di fantasie e di  talento  immaginativo ,  sempre malaticcio, in preda a raffreddori che degeneravano in affezioni polmonari , disordini gastrici , asccessi improvvisi e inesplicabili di febbre e tutte le varietà possibili e immaginarie di malattie infantili ,   la pensava assai diversamente.   E tuttavia per molti anni non ebbe  il coraggio  di  dirglielo,   ma nell’aprile del 1871, quando aveva ormai ventuno anni ,   alla fine di una passeggiata sulle rive del Firth of Forth , dove avevano conversato amabilmente  sulla possibilità che i cani avessero l’anima  ( e pare che fossero entrambi d’accordo , sì,  convenivano ,  i cani avevano l’anima) ,  con voce tremante ,  disse al padre : “  Signore ,  io non voglio fare l’ingegnere” 
Thomas  ci rimase di sasso. Lui aveva sacrificato tutto per obbedire al padre , ora era lecito sperare che suo figlio facesse altrettanto, ripetesse il sacrificio e diventasse così suo successore, in modo che la dinastia dei Stevenson  legasse il proprio nome all’impresa eroica e austera di costruttori di fari nei mari del nord.  Invece…  non gli disse nulla, se non: “E allora che cosa vuoi fare, Robert?” .  Il figlio disse che avrebbe fatto l’avvocato, ma non era certamente quello che desiderava : “Io vorrei tanto viaggiare per il mondo, signore” , disse.  Il padre si ritirò nella propria stanza e pianse amaramente : “ E’ la sventura più pesante che mi sia mai capitata”, disse alla moglie. E qualche tempo  dopo  fece una scenata violenta nei confronti del figlio,  che , a differenza di lui , era un credente  piuttosto tiepido :  “ Tu, orribile ateo, hai fatto della mia vita  un fallimento…Non mi resta più niente , avrei mille volte preferito  vederti in una tomba….” La vita in casa Stevenson fu un inferno.  E Robert si sentiva colpevole di aver procurato l’infelicità alle sole due persone che  amava, il padre e la madre.  Annotò sul suo diario:    Perfino la calma della vita quotidiana è fragile come il vetro: una specie di tremito anima tutte le cose, viviamo in un universo di una segreta amarezza”. E più tardi scrisse: “ Mi  hanno sempre accusato di essere leggero, e senza cuore. Ma  ciò è una cosa eccellente:  se non avessi il cuore leggero, morirei”.   La salvezza per lui era la fuga, cercava di stare in casa il meno possibile. “ Non devi sentirti ferita dalle mie assenze”, diceva alla madre. “ Devi sapere che sarò più o meno nomade , sino alla fine dei miei giorni. Niente bagaglio, ecco il segreto dell’esistenza”.  In attesa della “ fuga” se ne andava , con quel suo corpo così magro e fragile , quel viso così gracile ed emaciato , nei bar malfamati , “L’elefante verde”, “Il gaio giapponese”, “L’occhio che brilla”, dove incontrava tutta la feccia della creazione, ladri, miserabili, marinai ubriachi , prostitute, mendicanti, personaggi che avrebbe trasferito nei suoi romanzi. Tutti rimanevano affascinati  da quel suo viso lungo ed emaciato, dal suo sguardo dolce, caloroso, penetrante, da quella straordinaria energia che irradiava da un corpo estremamente fragile. Lui era amabile con tutti, aveva una curiosità insaziabile, un bisogno quasi morboso di gettarsi nel piacere del vivere,  sentiva una sorta di ebbrezza panica,  un abbraccio cosmico, impetuoso , possessivo con la natura e il mondo.
Robert Stevenson lasciò Edimburgo l’11 novembre 1873 ,  aveva 23 anni  e , nonostante tutto, ( la situazione in famiglia e le sue sortite nei bar malfamati)  era  riuscito a laurearisi in Legge   col massimo dei voti.  In seguito farà anche due anni di pratica legale  e conseguirà  anche il titolo di procuratore ,    ma  in realtà   l'avvocato non lo farà  mai,  eccetto sul finire della sua breve esistenza. 
 A Parigi , tre anni dopo , in un albergo  di Grez , incontra Fanny Vandegrift Osborne ,  che così descrive:“Bruna come una gitana/ agile ocme una lepre/ colore d’oro e d’arancio,/il  petto e la mano/ un giglio tigrato, fiorito / nel letto/  Tigre e giglio tigrato/ doppia,/ donna nel corpo, / uomo nel cuore/ coraggiosa e tenera,/ dolce e altera…”
Fanny aveva dieci anni più di lui ,  era divorziata e aveva tre figli . In passato, ai tempi della “febbre dell’oro” ,   aveva attraversato da sola l’America , aveva sparato con la Colt e il Winchester , giocato d’azzardo, fatto la sarta  e  ora era venuta in Francia per studiare la pittura. Era appassionata, energica, astuta, disperata , piena di mille talenti  e con il genio , dirà Stevenson, di estrarre “dai raggi del sole la tenebre dell' eclisse”.   Robert se ne innnamorò subito perdutamente e , dopo varie peripezie,  la sposò il 19 maggio 1980; lui aveva trent’anni giusti, lei quaranta. Il suo  primogenito ,  Lloyd , aveva vent’anni e  sarà , più che un figlio , un fratello per Robert, un  compagno di giochi,  la sua ombra.  
Stevenson   , con la sua Fanny  “ colore del miele ” , torna in Scozia  e si rappacifica  con i genitori.   Ma ad Edimburgo rimarranno pochi mesi , causa  una tubercolosi incipiente che costringe Robert  a  vivere in luoghi più salubri, ( Davos ,  la Francia meridionale, ecc.) , finchè, nell’estate del 1884 ,    il padre  gli regala una casa sulla Manica , dove  lo scrittore vivrà , con la moglie, il figliastro e i genitori    per un certo numero di anni.  Suo padre l’aveva perdonato , ma non capì mai  la grandezza del figlio   , che nel frattempo   era diventato  uno scrittore  affermato  grazie soprattutto al suo romanzo   più popolare , “ L’isola del tesoro” . Lo considerò sempre un bambino che si divertiva a raccontare storie, non certo un letterato. In effetti il famoso  libro  che allieterà decine e decine di generazioni a venire , era nato per gioco,   con  la mappa del tesoro,  che Stevenson  aveva disegnato e poi dipinto  insieme al figliastro Lloyd ,ingegnandosi di trovar  nomi e i porti che colpissero la loro immaginazione.  Quella carta  era stata la materializzazione  topografica di un sogno. Da lì erano sorti , all’improvviso,  tutti i personaggi del libro , le loro facce bruciate dal sole e le storie di mare , l’aria marine, le burrasche,  le
avventure, i caldi e i geli, le golette , i pirati abbandonati, i bucanieri,  le isole, l’oro sepolto nell’isola , tutte storie che facevano parte della sua infanzia e del  suo patrimonio famigliare,  e ora diventavano un qualcosa di palpitante e vivo, un libro che Stevenson scrisse di getto, con un deliziato inesausto piacere: la penna correva rapida e felice  sulla pagina bianca, un capitolo al giorno, trascinata dal ritmo veloce dell’avventura…Era stato un successo strepitoso ed ora gli editori lo sollecitavano a scrivere ancora altri libri del genere.. Stevenson invece aveva appena finito di leggere “Delitto e Castigo”  di Dostoevsky e ne era rimasto fortemente scosso. “ E’ di gran lunga il più gran libro che abbia letto da dieci anni…Mi ha quasi ucciso. E’ stato per me come una malattia”….E purtroppo la malattia l’aveva addosso , con incubi ,tosse, emorragia, tenia, influenze , raffreddori, bronchiti, mal di schienza, sciatiche. Per settimane non poteva parlare ad alta voce e comunicava con pezzi di carta...e tuttavia scriveva sette otto ore al giorno, finchè l’8 maggio  1887 muore il padre e Robert decide di lasciare definitivamente l’Inghilterra  e s’imbarca con tutta la famiglia , compresa la madre ,   per gli Stati Uniti. Ma subito dopo  darà libero impulso al suo antico desiderio di viaggiare.  Ed eccolo  nell’Oceano Pacifico visitare l’Australia, le isole, i coralli, le palme, conoscere  e fare amicizia con i  re indigeni; eccolo infine  stabilirsi alle  isole Samoa, dove trova  il paradiso che cercava da anni. Questo è il suo ultimo viaggio.   Si fa costruire una casa nell’isolotto di Upolu e lì rimane per tutto il resto dei suoi giorni  , dove conduce  una vita  assolutamente tranquilla , serena e pacifica , circondato dal rispetto e dall'amore degli indigeni , che  difende a più riprese ,  ( indossando anche,   quando occorre,  la tanto detestata toga da avvocato,)   dalle angherie e prepotenze dei "bianchi". In quest’isola da sempre sognata , Robert Louis Stevenson  muore  la sera del 3 dicembre 1894 ,  a soli  44 anni,  non di lenta consuzione , come aveva temuto, ma per un’ improvvisa emorragia cerebrale . Viene vestito con una camicia di lino bianco e i calzoni neri, cinti alla vita da una sciarpa di seta blu ; ha una cravatta bianca e scarpe di vernice nero. Sembra che vada ad una festa da ballo , mentre centinaia e centinaia di indigeni seguono la spoglia intonando i loro canti  funebri;  la sua salma viene trasportata sulla cima del monte Vaea, lì viene scavata la fossa e incisa su legno la poesia che egli aveva dettato per sé quindici anni prima:
Egli riposa qui dove bramava di riposare;
Dal mare è tornato alla sua casa il  marinaio
 Dalle colline è tornato il cacciatore.
Era  un virtuoso della penna ,   col quel suo stile chiaro ,   preciso , nervoso . Aveva scritto un po’ di tutto: una raccolta di articoli filosofici e letterari dal titolo Virginibus Puerisque , le novelle  di “Le nuove notti arabe” e poi i libri  più conosciuti,   “La freccia nera”, “L'isola del tesoro”  e altre storie di deliri, di accesa fantasia , di sdoppiamento della personalità , con potente valore allegorico e simbolico , vedi “Lo strano caso del  Dr. Jekyll e Mr. Hyde”  ;   aveva magistralmente rappresentato il tema della fatale attrazione del male ( “Il Signore di Ballantrae” ) . Indagando in sé   stesso , alla fine aveva  scoperto  che ciò  conta veramente  è l'esigenza di evasione dal quotidiano,  dalla routine, dalla noia ,  assecondando l'istinto e la fantasia  contrapposta ad una sana realistica visione etica e morale della vita. In ciò c’era molto virtuosismo espressivo e  molta  reazione   alla società  perbenista e ipocrita  del suo tempo , che aveva da sempre detestato e in cui si era rifiutato di vivere  Mentre il bisogno di evasione alla fine si esplica in una forma mitico-simbolica  e si concretizza con il suo andare a vivere ( felicemente) in un isolotto delle Samoa ,  tra  gente   semplice  e  innocente , buona, come lo era l’umanità all’inizio della creazione.  Qui  per anni la sua tomba sarà sommersa  di fiori e di canti,  fin quando  verranno i  suoi connazionali inglesi -   che in vita  lo avevano tenuto per  un originale  , un tipo strambo e non ne avevano assolutamente capito la grandezza  -   e  porteranno  in patria  le sue spoglie . Qui  Stevenson  sarà  celebrato , postumo,  con tutti gli onori   che meritava per aver  donato alla letteratura inglese e al mondo  la sua arte mirabile  e straordinaria.

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