lunedì 30 gennaio 2012

NARDA FATTORI E I POETI

NARDA FATTORI
E
I POETI


                                                  Di  Augusto Benemeglio

1.Una forca per i  poeti

I poeti ?
Sono scomodi i poeti figure/ da evitare domande sempre accese senza altare/ semantici silenzi e distrofie dell’io
Tutti i governi del mondo , diceva Apollinaire nel suo pamphlet “Le poète  assassinè” , ammazzano almeno un poeta al giorno; all’eroe assassinato uno scultore innalza “una statua di nulla”. Del resto anche oggi , questi falsi profeti  di metamorfosi assurde , dalle visioni primordiali,  con l’impulso di oscure visioni, - i carboni del cielo, il Graal , le gole delle scimmie, le Upanishad, la Bibbia , proclamatori di angoscia e  del grande dolore assoluto , questi poeti che si trovano  ogni mattina al bar con la bocca/ piena di sassi/ col dolceamaro del primo caffè, volentieri s’impiccherebbero sulla pubblica piazza così, tanto per ammazzare il tempo e la solitudine , per uno spettacolo antico e sempre nuovo come la morte. Chissà che non venga varato un nuovo progetto di legge  per erigere una forca su tutte le  piazze dei paesi  ,  un bel capestro lucente che faccia crick dei loro colli angosciati ed estingua la sete di libertà di questi poeti  che non fanno altro che piangere i fantasmi di fumo e d’armonia , di lamento dei loro ricordi :Conosco la memoria dei muri/i pesi che gravano/ era solo ieri che cantavo /nei cortei di maggio/a gota piena a capelli sciolti/ so che tornerò ad incontrare/ quello che foste/ amici di pizza e di birra

2. Montale e la Cveteava

“I poeti”  è il titolo di una lirica di Narda  Fattori, una  di Gatteo, tra il Rubicone, Pascoli e Fellini , una romagnola non allineata, cresciuta a pane e poesia , che si infiamma per nebulose  e oceani , ma anche per un fazzoletto che cade, un fiammifero che si accende,   un lichene, la presenza del  muschio e della gramigna  e l’oggetto più insignificante che le serve per slanciarsi nell’”ignota infinità” dove rilucono i fuochi delle molteplici significazioni; ma anche per entrare nei crepuscoli dell’inconscio.  Narda è  una  che fa poesia di silenzi e ombre segrete ,  silenzi talora cattivi, e ombre sporche, dovremmo dire anche noi, come  hanno annotato altri  critici. Ma il tema , alla fine, è sempre lo stesso, amore e morte, e nostalgia  del mistero della vita, della  giovinezza, dell’”essere o non essere” . Come Amleto, come Trakl , anche lei talvolta si mette a cercare  “angeli dalle cui palpebre gocciano vermi” , e  come il primo Montale “della storta sillaba secca come un ramo” , si dimostra una che non cerca consolazione  e lacrime dalla poesia , ma piuttosto  il destino della verità , per quanto dura e spietata possa essere . E’ un tipo che vuole andare avanti , approfondire, bruciarsi in questo gioco che diventa vita . Predilige tutto ciò che si fende, si spezza, che è rigido, duro, “virile” , pur nella sua stupenda femminilità , e , non a caso,  ama molto la Marina Cveteava,  una donna poeta  di cui lo stesso Pasternak disse che era immensa  e tempestosa , avida, impetuosa, rapace , che tendeva alla finezza e alla perfezione e aveva più intelligenza coraggio ossessione,  fierezza , nobiltà  , ( e palle) di mille uomini  messi insieme, e che si espose sempre  più, col suo orgoglio di donna, nel gioco al massacro , per sé, contro sé, contro la società, e contro la sua epoca .

3. Rovine

Narda ovviamente non è Marina Cvetaeva , ma è anche lei – come molte poetesse dei nostri tempi , che formano una griglia culturale tutt’altro che salottiera, anzi potremmo dire di “controtendenza” , che vanno contro corrente e risalgono i fiumi come i poveri eroici romantici salmoni , che gettano una sfida alla consuetudine , alle forme accettate, un atto di rivolta e di coraggio contro una società  fatta di rovine dello spirito , più che di crisi economiche.  Anche lei va  alla ricerca della emozione artistica in un mondo confuso , un universo in esilio , una società in liquidazione, che non merita più nessun canto di passeri solitari , nessuna tendenza verso l’infinito  leopardiano.  Narda  sa benissimo che la poesia non è scrivania,  e tanto meno carta ; la poesia non più evocazione o suono solenne , né  attesa che gli dei ti suggeriscano i primi versi . La poesia è una camicia di forza, una bianca camicia di stelle di fuoco  che ti arde sulle spalle , ma anche un mare di petrolio , un mare di convulsioni  di meduse  e gabbiani incatramati. ” L’anima lirica – diceva Ortega de Gasset – attacca le cose naturali , le ferisce o le uccide . La poesia  tende verso l’alto , ma anche  verso il basso, dove crescono semi fiumi e vermi ; è fatta di cose nobili e banali. E’ deiezione, diceva l’ultimo Montale, ed era provocazione, ma fino ad un certo punto . La sua  è drammatica , ma anche ironica , amara  con versi pieni di risonanze taglienti, di  forbici che tagliano melodie degli  occhi ,   una poesia che sembra facile e scorrevole , ed è invece difficile, “poiché tu conosci solo un mucchio di immagini infrante…ma su questi frammenti ho appoggiato contro le mie rovine”.
Anche Narda   parla di  “rovine “. Nella tensione dei contrasti, negli echi semantici ungarettiani,  ci dice che  fra rovinosi stracci s’è persa la coscienza /che fummo di pianto e d’amore

4. Il nome  di Narda

Ho cercato  il nome di Narda ( ma il suo è probabilmente il diminutivo di Leonarda), e  ho trovato  una città portuale immaginaria  fatta di “germogli di vento” (..:c’è sempre qualcos’altro dentro/ semi di pensieri bagliori di emozioni
lividi e giunture che scricchiolano) , e poi  una danza  orientale di Siva che rappresenta il continuo divenire cosmico , la danza che crea l’illusione . Ha con una mano  il fuoco della conoscenza spirituale e con le altre  mani scandisce il ritmo con i gesti rituali ; e sotto i piedi schiaccia un nano che è il simbolo dell’ignoranza. Anche la sua poesia ha un che di danzante, di onda su onda che ti giunge dal nulla, di ombra su ombra offerta alla miglior luce . Ma c’è anche una   “Narda”  che è uno strumento di misura, un regolo, una squadra , un calibro che misura il petalo di rosa;  una Narda che sa di geometria ; e , infine, qualcosa di simile, per assonanza ,  che significa “moneta”,  la fredda moneta che si metteva in bocca ai morti per pagare a Caronte il traghetto dell’Acheronte. (“Siamo frutti di vento, ciottoli del rumore, cenere di stelle!” e lo si faceva come ultimo gesto pietoso.

5. La Fenice e Dante   

C’è, invece, il più comune nardo, una sostanza profumata, che ricorda la Maddalena e la sua unzione di Cristo , ma anche uno degli  aromi con cui la Fenice , vicina a morire , cosparse il proprio nido, come ci racconta Ovidio.  Rinascerà ancora una volta l’Araba Fenice dalle proprie ceneri?  O , piuttosto, quei profumi, quelle essenze sono ormai per una bara definitiva, la moneta per Caronte?:   Siete il muro che respinge e chiude /l’orizzonte tondo delle colline e sorride /lo spaventapasseri fatuo sul campo mietuto
Trovo che certe sue metafore  siano classiche, essenziali, musicali, hanno un che di violino, un che di Caproni  più che Fortini.  E in tema di toscani c’è anche Nardo ( il maschile di Narda) di Cione,  un pittore fiorentino del Trecento che dipinse il giudizio universale  nella cappella Strozzi di Santa Maria Novella , a Firenze, il Paradiso e l’Inferno di Dante , con il volto del poeta in atto di preghiera sulla parete di destra. Volti che in realtà sono maschere, come quelli di Narda, che usano parole di linguaggi molti antichi, che ti vengono incontro , a volte , con un orrore incomparabile.  “Sarò tutti  o nessuno. Sarò l’altro/che senza saperlo sono/… Erbe di semplice botanica, /animali un po’ diversi,/dialoghi con i morti”. Sembrano versi di Narda, sono di Borges.

6. Parole nude

Ma riecco  Narda , coi suoi versi  che “ scivolano sui gradini della vita”, echi talora dissonanti,  cocci di un immenso vocabolario  ormai naufragato nel kisch  di tutti i giorni , nel saldo , nella liquidazione della nostra  asfittica civiltà , ecco Narda che si alza il mattino per ricomporre i cocci di quel vaso rotto,  ricomporre  quel mosaico strano , erigere quell’ultimo monumento d’umanità,  più duraturo del marmo e del bronzo , e lo fa in silenzio , quando tutti gli orologi di mezzanotte le doneranno  un tempo generoso,  per riunire gli  spiriti evocati: eccola insieme a tutti gli altri fantasmi poeti che  Testardi tornano a seminare fonemi/ dentro i solchi e aspettano che germoglino / parole vere – verginalmente nude”.

Roma, 28 gennaio 2012                                       Augusto Benemeglio






La Signora dell'Acqua

ROSETTA ACERBI
LA SIGNORA DELL’ACQUA

Di Augusto Benemeglio



1.     Viaggio nel Blu

Rosetta Acerbi , la Signora dell’acqua ,   in “ un viaggio misterioso tra sogno e simbolo” , è approdata a  Palazzo Rospigliosi , a Zagarolo , la sua seconda Itaca , ai primi di marzo del 2010 , e vi rimarrà , con le sue opere, fino alle prime rose di maggio, due mesi esatti.  Mi conducono su per le quattro sale espositive a lei riservate  il maestro Francesco Zero , con sua moglie Ludmilla,  e i suoi fidi collaboratori Christian e Serena , quest’ultima in dolce attesa. Ed ecco che m’immergo, come un sub,  nella prima grande tela di Rosetta , l’”Abisso” , e via , a nuotare in quel blu mare denso  magmatico ribollente , che promette tempesta di lì a poco ,  quel blu scuro e profondo , quel blu manto di Madonna di dellafranceschiana memoria , che genera ombre ,  ma anche comprensione , quel blu fatto di frammenti di lapislazzuli ,freddo , distante , che vuol dare un ordine alla cose per renderle chiare, definirle , ma anche quel blu-skin , o blu-squadron , roba da sangue misto;   quel blu kandiskiano  del Cavaliere e del suono di flauto , ma anche di violoncello , di contrabbasso , d’organo,  quel blu dei cavalli di Marc , quel blu denso lento gemmato saturante  tutto mentale , che chiude l’orizzonte leopardiano dell’Infinito e diventa manifesto , sentimento sovrano  , lamento , che porta tracce  dell’anima ; quel blu lunare che protegge il bianco dal suo silenzio  primordiale , dall’innocenza che è  in “Origine” , l’altra grande tela che campeggia su una delle pareti della prima sala.
“Dotata ad un tempo di fragilità ed energia, - scrive M.T. Benedetti -  Rosetta è pittrice d’istinto e di naturale talento , con una immaginazione  felicemente bizzarra ed un’esigenza profonda  di indagare la sua verità”. E la verità è in quel quadro che mostra un corpo di donna in posizione fetale ( Eva , la madre di tutti i viventi, o una ninfa morente che aspetta di rinascere?) , avvolta dal blu che nelle antiche parole greche designavano sia il cielo che il mare, il blu della costanza e della tradizione, ma anche quello tormentato dello scorticarsi , della frantumazione di vecchie  
strutture, della decapitazione di volontà caparbie, dei topi e del marciume che abbiamo nelle nostre cantine, il blu della depressione, il blu del rinnovamento. 
Il nostro è  un viaggio costante in quel  blu alchemico , in quella fiamma blu  che può consumare l’oscurità di cui si nutre , un terreno immaginale che consente allo sguardo sciamanico dell’artista di vedere “l’evento” , di vedere “l‘oltre”, in quel transito interiore - osserva Mario Novi- che è un po’ visionario  e allo stesso tempo  un impulso alla metamorfosi; dal buio al meno buio , dalla penombra alla luce, che tuttavia è forse al di là , e può anche apparire irraggiungibile”. Ma c’è in Rosetta quella fortissima  tensione all’inconoscibile, che è nostalgia ed enigma, se vogliamo romanticismo tradizionale, un libero atto di volontà appassionata che la muove e le dà energia, potenza, e fragilità insieme, e forse delusione per una conoscenza impossibile. Anche lei potrebbe dire con Carlo Carrà: “E’ l’amore dell’amore, questa forza che mi muove”.    
2.     Incontro con De Chirico
Un viaggio inquietante , quello dell’artista veneziana , fatto di mistero, incertezza , malinconia , sogno trasformato , astratta solitudine, roba da pensieri filosofici, metafisici ,  da incontri con il grande maestro Giorgio De Chirico – l’ultimo individualista del ‘900 , che ha dimostrato come  l’artista possa ( e debba) seguire il filo d’Arianna della propria mente , incomprensibile agli altri, -   che Rosetta conobbe alla fine degli anni ’70.
“Vedi, Rosetta, - le disse il maestro – “bisogna rappresentarsi tutto ciò che è nel mondo come un enigma : non solamente le grandi domande che da sempre ci si è posti ; perché il mondo è stato creato , perché noi nasciamo, viviamo e moriamo, perché potrebbe essere che dopo tutto- come ho già detto – tutto questo non abbia alcuna ragione. Bisogna comprendere l’enigma di certe cose che in generale sono considerate insignificanti. L’enigma e  l’inquietante sono all’angolo della strada , e basta solo saperli vedere. Ognuno vive giorno e notte con la propria follia, o con la propria saggezza , come aveva scoperto Nietzsche…Sentire il mistero di certi fenomeni dei sentimenti, dei caratteri di un popolo , arrivare a figurarsi gli stessi geni creatori come delle cose , delle cose molto strane che noi rigiriamo da tutti i lati. Vivere nel mondo come un immenso museo di stranezze , pieno di giocattoli curiosi , variopinti , che mutano d’aspetto, che talvolta , come fanno i bambini , noi rompiamo per vedere come sono fatti dentro, e delusi ci accorgiamo che essi erano vuoti”.
Ora capiamo perché qualcuno ha fatto un accostamento fra De Chirico e l’Acerbi , sta tutto nel senso della ricerca dell’enigma , del mistero , del viaggio interiore  che l’artista  compie con le sue opere.  E non a caso oggi Rosetta si trova nella città di Zagarolo , a Palazzo Rospigliosi , dov’è una delle mostre permanenti del giocattolo  più importanti al mondo , giocattoli che spesso sono un po’ come il filo d’Arianna della nostra storia interiore. Il suo , l’abbiamo detto , è  un  ritorno a casa, poiché il marito,  scomparso sette anni fa , il grande musicista Goffredo Petrassi , - maestro di Ennio Morricone , autore anche di un brano musicale, “Morte dell’aria”,  su libretto di un pittore-letterato  come Toti Scialoja , - era originario ed è tuttora vanto di questo ridente piccolo centro del Lazio.

3. La Venexiana

Ma eccola , Rosetta, ancora bella e affascinante  ,  donna senza età , senza tempo, con i lunghi capelli  neri che fluiscono sulle spalle  , la testa coperta  dall’enorme cappello grigio texano , eccola la Signora dell’Acqua,  la Venexiana ,  che  fa il suo ingresso  regale nella Sala delle Bandiere accompagnata dal Presidente dell’Istituzione, Marcello Mariani e dal direttore artistico Francesco Zero , eccola con quel suo  naturale  “Bas blu”  da donna colta  che sprigiona da  tutta la sua persona , nel viso magro e scavato , nello sguardo felino , da volpe-gatto, quasi immersa in  quel blu cezanniano  fatto di sentieri e contorni d’ombra  che si reitera e diventa  un  colloquio sottile,   ambiguo,  tra lei  e una città lontana , indistinta  vagamente nordica colla luna fredda d’argento e le sue guglie  ( ma potrebbero essere moschee) in “La sirena e la città”, quadro simbolista, onirico , surreale, che evoca Chagall per la leggerezza , il volo, la metafora, il senso fiabesco, in cui c’è una perfetta sintesi tra il valore della luce e il colore. Quella città , a ripensarci, potrebbe essere anche orientale, o una trasfigurazione di Venezia, la sua città natia , o – perché no? - di Roma, la sua città adottiva. Se – come è noto -  “romani”  si diventa,  veneziani , invece si nasce. E lei lo è in modo integrale, come Desdemona, o Nicoletta Strambelli ( in arte Patty Pravo) , o Federica Pellegrini , donne belle, attraenti, ma soprattutto dotate di un sex-appeal , un fascino straordinario, sottile, misterioso , che mescola occidente e oriente, come la loro città,  e conquista e  soggioga le menti degli uomini , come nel caso de il racconto “La Veneziana” di Vladimir Nabokov , in cui gli occhi scuri di un ritratto di giovane donna veneziana attribuito a Sebastiano del Piombo ,  l’olivastra grazia del collo , le delicate pieghe sotto l’orecchio , il dolce sorrisetto ironico delle labbra , seducono a tal punto il giovane Simpson da fargli desiderare di entrare, immergersi nel quadro . E lo fa , in effetti, senza sforzo alcuno.  “Subito un fresco delizioso gli diede il capogiro . L’aria sapeva di mirto e di cera  e un lievissimo olezzo di limoni... Alta , bellissima, tutta illuminata dall’interno , accanto a lui stava la veneziana che gli sorrise in tralice”. 

4.Entrare nel quadro
Si era realizzato quel desiderio che aveva espresso anni prima il grande Kandisky , “Lottai con tutte le mie forze per trovare il modo . la tecnica di attrarre lo spettatore dentro il quadro stesso , perché vi si mescolasse e ne diventasse parte” , lo stesso desiderio di abitare i quadri di Rosetta  ( e quindi la sua anima) che ha espresso il poeta Elio Pecora: (vorrei) “abitare il momento, dentro un silenzio chiaro, e sarebbe l’amore , quello che colma e fa vivi”. Ed è  questo suo essere veneziana che rappresenta un po’ la sua  peculiarità e la sua vitalità artistica e spirituale , come osserva Luigi Carluccio : “ È veneziana e ciò spiega tante cose , quel gioco discreto , ma anche divertito di coperture , temperamento esuberante  e d’istintivi estri improvvisi “. Eccola , - dice Marco Vallora - col gesto rotondo accarezzante  , che plasma il vuoto sferico, trattenendo il respiro lento, gli occhi streganti , cercando di rattoppare i tempi del suo destino .
E’ questo suo essere veneziana e quindi  “Signora dell’acqua” , che la rende erede preziosa e gelosa della maggiore pittura veneta rinascimentale , dalle iridescenze bizantine alla Cena di San Giorgio del vecchio Tintoretto,  un capolavoro fantastico il cui riflesso arriva fino al surrealismo , opera che , come vedremo , rimase molto impressa nella mente dell’Acerbi , o il Veronese , coi fremiti di una sensibilità luministica prebarocca , le geometrie perfette e la luce molle e delicata del Rubens , le risonanze , i riflessi incantevoli dei canali veneziani , le scenografie fastose del Canaletto. Ma va precisato – dice il curatore della mostra, Carlo Fabrizio Carli , che  i suoi interessi culturali sono soprattutto di natura psicologica , legati all’interpretazione della valenza simbolica dell’acqua,  allo studio del misticismo orientale, ai valori spirituali  dell’espressione artistica , a cominciare da quella musicale, al recupero di simboli archetipici e di miti antichi . Per cui – annota Giorgio Di Genova , - le atmosfere, le luci crepuscolari , i cieli malati della sua pittura appartengono a tale sfera e si connotano come ambientazioni di racconti onirici.
“Il suo è  tutto un  raccontarsi nel tempo”, - dice Giorgio Campanaro, - “un palinsesto della memoria più recente , un ritorno al luogo di origine “. Il tempo che vibra come un verso foscoliano , come il diario veneziano di Rilke , e la magia di una città  unica al mondo  che appartiene a tutti , ma in modo particolari a chi vi è nato e si formato. Ecco – scrive Arnaldo Romano Brizzi – le lune velate e incantate in Re minore ,  gli splendori lagunari e una nebbia che sfalda i contorni di alberi e palazzi , un corteo di vergini , un flautista disseminatore  di cromie , una reverie trascinante sulla solitudine della laguna , con la musica di Offenbach nei  suoi “Racconti di Hoffman”. Del resto in lei tutto è musica, anche i suoi fiori sono musicali.

5.I fiori musicali.
Una sinfonia floreale ; ecco come un  trasuono di liuto , o chitarra delle note che trapuntano rose rosse come tante virgole nere sparse nell’aria ; ecco il silenzio flautato che fanno le rose bianche nella notte intensamente blu: e poco più in là l’armonioso concerto dei petali che la carezza di un vento maschio e gentile  sparge delicatamente sulla tela, le atmosfere verticali ,  i fiori disfatti , e un suono triste di violoncello sullo sfondo rosa ; e infine il candido, sfumato, delicato lentarello di Boccherini, coi suoi violini , i clarini  e l’arpa , che ha qualcosa di magico e di  eterno nel segreto misterioso delle sue corde. Uno strumento lirico e delicato, raffinato e femminile , eppure capace di grande passionalità e forza , come  Rosetta Acerbi, artista veneziana.
 Ma  quei fiori implacabili , occasioni di accordi tonali dissonanti , che vengono accostati  ora a De Pisis ,  o  al Mafai visionario ,tenero e sensuale,  poeta di dolcezza e di (ineluttabile) decadenza   , profeta di “demolizioni” e disfacimento delle cose ,
appartengono ad una botanica sacra immaginale , alla piena fioritura dell’immaginazione che si mostra come un diffondersi qualitativo di colori , appartengono alla musica che fanno le sfere dell’universo , appartengono al mito ,  sono un aspetto dell’anima in veste di Flora, meditazione alchemica con cui si cerca di ricostruire mentalmente il Paradiso perduto , e dentro questi fiori edenici , nascosti, invisibili , stanno creature celesti, giovani adolescenti androgini  che suonano la lira e il flauto ,  angeli ambigui pieni di fascino e di eros che entrano nel vasto mondo degli enigmi e misteri.

6. Gli Angeli di Rosetta
I fiori – diceva Jung – sono componenti della nostra totalità psichica, il “Sé” , e indicano lo sbocciare dei rapporti umani. Nell’alchimia greca i fiori e i boccioli sono immagini per gli spiriti e le anime, .Ed è  con gli esseri celesti  - le figure immaginali – che ora si realizza il rapporto psichico . Noi siamo testimoni del loro sbocciare , e siamo i loro giardinieri. Ma è solo lei, la vera grande giardiniera, che riesce a mettersi
In comunicazione con questi esseri celesti, gli Angeli, che troviamo nelle due ultime sale di Palazzo Rospigliosi con il titolo di “Presenze”, figure acquoree inquietanti che richiamano gli angeli “ tremendi” di Rilke.  Ma forse  tutte quelle presenze , che ritessono un po’ la storia dell’arte, da quella pompeiana a quella rinascimentale veneziana, con richiami luministici sensuali di uno scapigliato come Tranquillo Cremona ,passando per  Moreau  coi suoi bagliori di smalto  e il chiaroscuro che crea ombre dorate di tipo rembrandtiano , e che ingloba elementi eterogenei, atti a creare un clima sensuale e misticheggiante  , il mito , la storia , il racconto biblico, etc.-  rappresentano la molteplicità e l’ambiguità ( che è insita nell’arte) della stessa artista veneziana. Guardate ogni ritratto e ditemi se non è sempre lo stesso volto, e cioè quello della stessa autrice? , dico al giovane Christian. E’ vero, dice lui. Il mistero abita in questi quadri , dove ritrovi Huysmans, Goya , Poe Baudelaire , Mallarmè, Valery , Redon, precursore del simbolismo pittorico, e i miti classici e orientali , un’iconografia tutta basata sull’ambiguità che non è però priva di legami con il grottesco romantico. Sì, è proprio così, conferma Carmelo Siniscalco: Rosetta è una personalità sfaccettata inquietante e inquieta , ansiosa ,vulnerabile, affaticante nella sua complessità, che dà l’impressione di voler sfuggire a se stessa e al talento che per dono naturale possiede. Ed io lo posso dire con cognizione di causa.
Eccola , - scrive Briquet - con l’istinto di un primitivo pieno di grazia  come il suo amato  De Pisis ,  intenta  a sostituire le prospettive,  ma anche a studiare Tintoretto e Leonardo per realizzare quella grande tela fortemente espressionista e decadente che è  L’ultima cena” , in cui si fondono in modo suggestivo e con una delirante fantasia d’insieme , le sue doti notevoli di  fantastica trasfiguratrice. La sua – dice Claudio Strinati -  è un’attitudine all’evocazione figurativa , per cui tutto ciò che  è dipinto sembra estratto nel flusso continuo del movimento cromatico. Però il suo  è un gran pianto immoto – dice Michele Parrella –, un pianto senza speranza di approdo , senza voci, con rumore di frange , con fervore di braccia , senza il peso del cuore.
Che lascia dietro di    Rosetta ?  , chiedo all’immaginaria platea dei critici e degli intellettuali che hanno conosciuto l’Acerbi e l’hanno accompagnata nel corso dei lunghi anni della sua carriera.  Un riverbero sottile , - dice Giuseppe Galassi - a volte chiaro, impegnativo e penetrante , a volte sfuggente. Forse  è una donna costantemente in fuga  da se stessa?  Non lo so, - risponde  Gian Luigi Rondi – ma so che ci lascia una delicatezza tonale , dei cromatismi raffinati , e figure , tante figure alle soglie dell’ambiguità e del mistero. E magari – soggiunge Giorgio Pressunger - il segreto  prezioso per scandagliare il mondo dell’altro , per accedere all’altro,  per riconoscere nell’altro i nostri propri tratti . Chissà? Ma una cosa è certa, - sorride Diana Kelda – nelle sue opere c’è la musica simbolista, la vitalità delle strategie simboliste, e poi l’amore, la solitudine, la speranza, la paura, l’esaltazione, la disperazione, la morte, tutte cose dell’uomo. Già, è vero, ammette Marco Di Capua, ma Rosetta ci lascia un viso eternato nella sua giovinezza, quello di un’affascinante sirena veneziana.  Ci lascia figure tremule  nell’acqua -  dice Vittorio Sgarbi con voce suadente -  quasi non avessero la volontà  di emergere del tutto dal piano acqueo che le arresta sulla tela . Affiorano e tornano a scomparire nell’onda di luce che le attraversa , talvolta le abbacina , le rende  diafane , opalescenti, le carni di perla o d’avorio avvolte nei fiori disfatti , o nei veli di sogno.  Ci lascia una speranza e la volontà di nuovi approdi, conclude Lorenza Trucchi.
Ed è  vero, ma ci lascia  anche il senso della bellezza , quell’insistenza nel perseguire la bellezza che ha guidato il suo cuore e la sua mente in tutte le strade  del mondo , per tutti questi anni , facendola moralmente latina,  ma ritmicamente  “orientale” , insomma una  veneziana, straordinaria “Signora dell’acqua” .




sabato 28 gennaio 2012

Primo Levi : questo è un uomo

     PRIMO LEVI : QUESTO E' UN UOMO

                                                            DI AUGUSTO BENEMEGLIO



 


1.I sommersi e i salvati

Ne “I sommersi e i salvati”, ultimo libro di Primo Levi , che è stato riproposto da Einaudi in un nuova edizione , presentata al Massimo di Torino , con lettura di alcuni brani di Moni Ovadia, lo scrittore connota la conoscenza del tedesco come ciò che separava la vita dalla morte nel Lager. “Sapere il tedesco significava la vita.” Ma anche l’essere un valente chimico contribuì a salvarlo e a farlo entrare nel “Commando 98 di Chimica” anziché nel forno crematorio. E tuttavia sarà Dante con il Canto di Ulisse, uno dei più struggenti capitoli di “Se questo è un uomo”, a restituirgli il senso vivo dell’umanità solidarietà , della bellezza, l’amore per il sapere e la nostalgia per la casa natìa. E sarà la stessa figura omerica-dantesca di Ulisse che riemergerà dopo molti anni ( espresse il desiderio che fossero scolpite in greco sulla sua lapide le parole “pollà plankte” che definiscono l’eroe e la sua voglia di andare per il mondo ) , nella circostanza della sua tragica morte, avvenuta per suicidio ( si gettò nella tromba della scala del palazzo dove era nato e vissuto ) vent’anni fa, l’11 aprile 1987 , scomparsa che è stata ricordata con una serie di manifestazioni teatrali, radiofoniche, museali e perfino con un ‘opera lirica, “Passio”, del compositore spagnolo Luis de Pablo, che è stata eseguita in prima mondiale dal maestro Gianandrea Noseda , “-… una musica che rispecchia fedelmente lo stile asciutto e distaccato, ma non scevro da tinte impressioniste di Levi... Una riflessione sull’umanità destinata a soffrire senza ragione , una musica intensa, di grande impatto emotivo , ma non di facile intesa”- presso l’Auditorium Rai di Torino , città in cui Levi era nato la sera del 31 luglio 1919. da un’agiata famiglia di ebrei piemontesi di solide tradizioni intellettuali.
Il padre, l’ing. Cesare , uomo vivo e vitale, straordinariamente versatile, estroverso , esuberante, è esattamente l’opposto di Primo , che è introverso, timido, di gracile costituzione fisica e di una sensibilità tutta particolare, e avverte nei confronti del vigoroso padre una costante soggezione , che si colora talvolta di paura e di ombrosi risentimenti. L’impossibilità di avere un rapporto di confidenza con il padre accentua la sua introversione, tende sempre più ad isolarsi, a vivere in un mondo tutto suo, carico di tensioni e di paura.

2. Il prof. Cesare  Pavese

Fondamentale sarà per lui , in questa fase delicata dell’adolescenza , il vincolo affettivo che lo lega alla sorella che lo aiuta a superare l’ostacolo e le difficoltà del suo isolamento. Studia presso il ginnasio-liceo D’Azeglio e ha , per qualche mese , Cesare Pavese come insegnante di lettere. All’esame di maturità viene rimandato con tre in italiano. Non riesce a scrivere nulla sul componimento assegnato che ha per tema “La guerra in Spagna”. Consegna il foglio in bianco. Nel 1937 si iscrive alla facoltà chimica dell’Università di Torino , dove si afferma ben presto come il migliore del suo corso e consegue la laurea nel 1941 summa cum laude. Esercita subito la professione di chimico in condizioni di semiclandestinità (fin dall’ottobre del 1938 era stata emanata la “carta della razza”, una serie di provvedimenti legislativi e amministrativi anti-ebraici) , in una cava d’amianto a Balangero presso l’industria Wander di Milano. L’8 settembre 1943 lascia l’impiego e si trasferisce in Val d’Aosta , sopra Saint Vincent, dove viene in contatto con altri giovani appartenenti al movimento “Giustizia e Libertà”. Sono in otto, sprovvisti di mezzi e di armi , senza nessuna esperienza militare. Hanno solo esuberanza ed entusiasmo giovanile. Il 13 dicembre vengono catturati e portati ad Aosta , dove saranno sottoposti a interrogatori e maltrattamenti. Dopo due mesi di prigionia Levi ammette di essere cittadino italiano di razza ebraica e viene così inviato a Fossoli , presso Modena, campo di raccolta degli ebrei.


3.  Auschwitz

Il 22 febbraio 1944, insieme ad altri seicentoquarantanove compagni di sventura , viene deportato ad Auschwitz. Soltanto tre di essi, compreso l’autore di “Se questo è un uomo”, sopravvivranno al Lager. E lo stesso Levi dirà paradossalmente che “ è stato il lager a rendermi forte; l’ossatura morale mi è venuta dopo, dopo di aver raccontato e scritto , dopo di essermi sentito depositario di un’esperienza orribile e fondamentale, che era necessario diffondere e commentare. Solo dopo che l’umanità mi era stata negata , e dopo averla conquistata scrivendo, mi sono sentito uomo nel senso del libro”
Ma non è vero: Levi riuscirà a sopravvivere all’inferno del Lager grazie alla sua forza morale e di carattere , alla sua profonda maturità, alla sua intelligenza , alla sua coerenza interiore, ma soprattutto – come abbiamo detto - furono gli studi di chimica e la conoscenza del tedesco a salvargli la vita e a farlo diventare il massimo scrittore – testimone del XX secolo, ad iniziare dal suo primo libro, che Levi comincia a scrivere subito dopo la deportazione , al ritorno a Torino, ( siamo alla fine del 1945 ) . Ma quei ricordi di prigionia non interessano nessuna delle grandi case editrici , né Natalia Ginzburg, che lavora per Einaudi, a cui Levi si rivolge. Sarà il piccolo editore Silva a pubblicare “Se questo è un uomo” in 2500 copie , in gran parte invendute. Ma se il libro non venisse stampato , Levi lo narrerebbe , lo urlerebbe per le strade , tale è il suo stato d’animo, l’esigenza di raccontare quanto ha visto e vissuto, rendere partecipi gli altri, attaccar discorsi, costringere i suoi interlocutori ad ascoltare, a prendere atto delle tragiche allucinanti avventure nelle quali è incorso.



4.Il libro è nato nel lager.
L’idea di dover sopravvivere per raccontare quanto avevo visto mi aveva ossessionato giorno e notte , per cui posso affermare che il libro è nato nel Lager “, dirà lo scrittore. Ma il successo come tale lo otterrà solo dieci anni dopo, quando , in occasione di una sua conferenza a Palazzo Carignano sulla deportazione e le atrocità dei Lager , l’editore Einaudi decide di pubblicare il libro , che esce contemporaneamente al “Diario di Anna Frank”. Ed è subito un successo straordinario. Il libro viene tradotto in moltissime lingue e ottiene vari riconoscimenti internazionali. Nella sola Germania se ne vendono cinquanta mila copie in tre mesi. “Io non credo – scrive Levi al traduttore della lingua tedesca Heinz Riedt – che la vita dell’uomo abbia uno scopo definito; ma se penso alla mia vita, agli scopi che finora mi sono prefissi,uno solo ne riconosco ben preciso e cosciente, ed è proprio questo, di portare testimonianza, di far udire la mia voce al popolo tedesco , di rispondere al Kapo che si è pulito la mano sulla mia spalla , al dottor Pannwitz, a quelli che impiccarono Ultimo e ai loro eredi…”. Si tratta di personaggi reali che ritroviamo nel suo capolavoro, nato dall’insopprimibile esigenza etica, dall’urgenza e dalla necessità di un obbligo morale, di rendere consapevoli i contemporanei, attraverso la propria testimonianza diretta, di una delle massime atrocità che gli uomini potessero compiere nei riguardi dei loro simili: l’attuazione dei campi di sterminio. Ma il libro nasce anche dalla volontà di cercare di comprendere - “…non posso dire di capire i tedeschi e qualcosa che non si può capire costituisce un vuoto doloroso, una puntura, uno stimolo permanente che chiede di essere soddisfatto – e dalla sua passione del ricordare, che sono doti tipicamente ebraiche. Egli aveva una tale dimensione della memoria, che è anche “trasmissione di una lingua remota dei padri, sacra e solenne, geologica, levigata dai millenni come l’alveo dei ghiacciai”, che lo portava in qualche modo sempre e comunque all’inevitabile missione della testimonianza e della profezia.




5.Insegnare a tutti come non si deve dimenticare

Ricordare, ricordare per sé e per gli altri compagni innocenti massacrati ; insegnare a tutti come si ricorda, come non si dimentica, come non si deve dimenticare e cercare di studiare e di capire l’uomo: come possa egli, l’uomo degradarsi al più basso livello morale della sua storia, facendo dello sterminio gratuito, della tortura scientifica , dell’abbrutimento dei suoi simili la propria prassi e il proprio ideale. Che cosa ha trasformato quegli uomini in belve? Gli aguzzini del Lager “erano della nostra stessa stoffa, esseri medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi…ma erano educati al male” .
Dunque , individui non diversi da tanti altri , non diversi , forse, da noi, trasformati in spietati carnefici. Per pigrizia mentale, per miope calcolo, per stupidità , per orgoglio nazionale, perché ” erano educati al male”? Ma chi li ha educati al male, e perchè ? “A molti individui o popoli – scrive Levi - può accadere di ritenere , più o meno consapevolmente , che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un ‘ infezione latente…” Ed è su questa infezione latente - che alberga (purtroppo) in ognuno di noi e può manifestarsi in qualunque momento in atti saltuari e incoordinati verso coloro che vediamo come “ stranieri”, o “ diversi”, che dovremmo ancora oggi riflettere, visto quello che si è ripetuto e continua a ripetersi nel mondo anche ora.



6. La Tregua

Levi non è diventato nichilista , né manicheista , si è fatto carico di un giudizio di valori, senza mai perdere di vista la distinzione insormontabile che esiste tra Bene e Male, ma non si è trasformato in rigido moralista ; è riuscito a mantenersi in equilibrio , non idealizzando le vittime e non demonizzando i carnefici , e lo ha fatto attraverso il continuo studio e l’analisi di alcuni aspetti dell’animo umano , ha tracciato una via obliqua verso una nuova dignità , “una cote su cui affilare il cuore e la mente , un crogiolo di purificazione , ma tenuta quasi segreta per evitare ogni retorica. E lo ha fatto con una scrittura che fosse chiara , semplice , perfettamente lucida - “ una scrittura che deve servire a comunicare , a trasmettere informazioni o sentimenti da mente a mente , perché questo è il compito di chi scrive . Se si scrive in modo oscuro, col solo linguaggio del cuore , non si viene capiti da nessuno e non si trasmette nulla, si grida solo nel deserto”. Ed ecco dopo la discesa agli inferi di “Se questo è un uomo “ , “La tregua” , il libro-odissea , il libro del ritorno, inteso come travaglio interiore , lotta contro le memorie , resurrezione alla vita , dove gli episodi , i personaggi, gli incontri, le stesse tappe del viaggio stanno ad illustrare , in chiave emblematica , i momenti cruciali di quel doloroso itinerario che è appunto il recupero dell’io , della propria integrità umana , calpestata e avvilita dalle tremende ferite che Levi ha dovuto subire. “La Tregua “ è anche una salita verso una liberazione che si mostrerà illusoria .



7.“ Il peso  terribile del ricordo

La libertà , l’improbabile , impossibile libertà , così lontana da Auschwitz che solo nei sogni osavamo sperarla, era giunta; ma non ci aveva portato alla “Terra Promessa. Era intorno a noi, ma sotto forma di una spietata pianura deserta. Ci aspettavano altre prove, altre fatiche , altre fami, altri geli, altre paure” E tutti i suoi libri successivi, fino all’ultimo, “I sommersi e i salvati” , conserveranno quel linguaggio “ chiaro , essenziale , comprensibile a tutti, come le elaborazioni chimiche che hanno una lunga ombra simbolica del ridurre , concentrare, distillare , cristallizzare , “una lunga arringa , - scrive Tzvetan Tudorov , - di chi rifiuta le risposte facili basati su esami frettolosi . Levi non si accontenta di rievocare gli orrori del passato , ma si interroga a lungo e con pazienza sui significati che tali orrori hanno oggi per noi. Sa che le passioni e i comportamenti umani non cambiano mai radicalmente e la storia si ripete; ed è proprio in questo atteggiamento verso il passato che sta la sua lezione più preziosa. Che uomini come Levi abbiano camminato su questa terra , che siano sfuggiti all’insidiosa penetrazione del male che sapevano così bene descrivere , è fonte di incoraggiamento per il lettore di questo libro, comunque sprofondato negli abissi della miseria e nella malinconia . Levi non ce l’ha fatta a sostenere il peso dei ricordi, “ che giacciono in noi e sono incisi sulla pietra” , e che diventeranno man mano talmente ossessivi in lui fino a condurlo all’estrema tragica disperazione del gesto fatale perché sempre, al “superstite” del Lager “ad ora incerta,/quella pena ritorna,/e se non trova chi lo ascolti/ gli brucia in petto il cuore./Rivede i visi dei suoi compagni/lividi nella prima luce,/grigi di polvere di cemento,/indistinti per nebbia,/tinti di morte nei sonni inquieti…. "Indietro, via di qui, gente sommersa,/Andate. Non ho soppiantato nessuno, /non ho usurpato il pane di nessuno,/nessuno è morto in vece mia. Nessuno./Ritornate alla vostra nebbia./Non è colpa mia se vivo e respiro. E mangio e bevo e dormo e vesto panni".
Sarà quest’angoscia senza sosta e senza fine che lo porterà al suicidio, gettandosi nella tromba delle scale della sua casa paterna di Torino, dopo aver salutato e ringraziato con un sorriso gentile la portinaia che gli portava la posta e aver lasciato un ultimo messaggio: “Non dimenticate”...

Quale Ulisse ci salverà?




QUALE ULISSE CI SALVERA'?




Di Augusto Benemeglio

1.L’Ulisse di Joyce
Ulisse , il cosmonaufrago. Ha attraversato quasi tre millenni , da Omero a
Kubrik “E poi andò la nave, chiglia sui flutti, per il mare divino…”  
In Ulisse – secondo Piero Boitani - si riassume l’intero itinerario del pensiero
occidentale, culminato nella diaspora dell’olocausto. Sì, tutto l’itinerario
del pensiero occidentale resta quello di Ulisse , la cui avventura nel mondo
non è stata che un ritorno alla sua isola natale…
Ulisse è contrapposto ad Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta .…in altre parole Gerusalemme contro Atene. E’ stato e sarà sempre così . E poi l’Ulisse dantesco , che parte dai lidi di Circe senza alcun desiderio di ritorno, e in direzione di una terra che non è promessa, ma ma certo ignota, è la figura stessa dell’inquietudine di tutta una civiltà me, quella occidentale. Ma forse la salvezza ci verrà dall’Ulisse di Joyce, che dopo le mille esperienze di ogni giorno torna a casa e accetta la realtà e la moglie infedele, una sorta di carnale Beatrice in cui si fondono tutte le terre …

2. L’Ulisse di Santini
O forse ci salverà il sincretismo , la mescolanza delle culture, il metissage. culturale di cui parla Florio Santini . Ulisse è sempre il primo a fare esperienza dell’altro, a incontrare i lestrigoni, i ciclopi , i feaci….
Ulisse è cantato da tutti, è un gesto, un remo , una vela all’orizzonte, è ognuno e nessuno. In lui le tradizioni si fondono e si combattono. Perché sincretismo non vuol  dire assorbimento indolore , acquiescenza ai modelli altrui: significa  invece conflitto tra civiltà, divisione lancinante nella vita e nella storia…..
Ma Ulisse racchiude in sé quella meraviglia che desta nell’uomo Filosofia scienza e poesia, quel mistero che provoca continua interpretazione e nuovi racconti.
“De’ remi facemmo ali al folle volo”
Ed ecco allora che Ulisse ad ogni momento cruciale della vicenda umana
congiungere essere e divenire , compiendo nella storia la profezia dei poeti. Si
trasforma in Erik il Rosso e Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci , scopre
il paradiso terrestre in America e l’infinito nell’Oceano. Di terra in terra verso il gorgo , il cammino di poesia e scienza si divide con il Vecchio Marinaio il Capitano Achab e con Poe, con Nietzsche e Leopardi, con Baudelaire e Darwin e con Ariel-Idomeneo-Buhl-Cahal o chiunque fosse a scoprire Gallipoli e altre mille città della Magna Grecia.

3. Il silenzio delle Sirene
Ulisse è ormai sospeso tra tutto e nulla , fra meraviglia e orrore: la sua ombra ci prepara allora , per mano dei grandi scrittori della modernità, esiti diversi e tuttora aperti: la metafisica della scemenza e la stupidità della metafisica ,l’oscurità e la speranza, la parola, l’enigma, il silenzio.
Il silenzio ultimo delle Sirene.
Secondo Kafka le sirene avevano un’arma assai più letale del loro conto, e questa era il silenzio; qualcuno si è forse salvato dal loro canto, dal silenzio, però, certamente no.
Il Nuovo Ulisse si avvicina alle Sirene, ed esse non cantano perché hanno
dimenticato il canto. Ma Ulisse non sente il loro Silenzio, lui crede che stiano cantando e che solo lui non le Ode perché ha i tappi di cera alle orecchie, perché è incatenato. Ma poi , uscendo fuori dalla finzione poetica , all’Odisseo di oggi non interessa nemmeno più che le sirene cantino o siano in Silenzio.
Per lui Vale solo l’infondata presunzione del suo Io. Egli intravede appena la seduzione delle Sirene, ma trascura la bellezza che gli viene offerta, non comprende il loro sguardo e neppure il proprio sguardo.
E invece di acquisire conoscenza , dimentica tutto e piomba nella più totale
ignoranza.
Questo racconto di Kafka prefigura allo stesso tempo la morte della poesia e
dell’essere e il canto della disumanità dell’uomo. E l’ombra ricompare puntuale ad avvolgere tutta l’ipotesi nel lieve velo del nulla che veste la vita mutandola in morte

giovedì 26 gennaio 2012

Esenin e Isadora Duncan

IL POETA CONTADINO E LA DANZATRICE 



DI AUGUSTO BENEMEGLIO 
1.    Il poeta contadino

Sergej Esenin , l’autore de “ La confessione di un teppista “ e “ Mosca delle bettole” , avrebbe potuto essere  forse uno dei più grandi poeti  del nostro tempo  se  non si fosse impiccato,  a meno di trent'anni,   nel bagno  di una squallida stanza d'albergo di  Leningrado , gonfio di  vodka e disperazione .  Era un gelido e buio pomeriggio invernale del 1925  e la poesia si impoverì di colpo, perdendo uno di quei poeti - contadini  che portavano avanti un discorso di autentica cultura popolare, con melodiosi accenti e una poetica che esaltava i valori della tradizione e del costume contadino.  Se in Majakovskij la rivoluzione di ottobre ebbe il suo poeta che esaltò l’operaio , in Esenin  trovò invece il cantore del contadino russo protagonista del rivolgimento avvenuto in Russia .  Il giovane Sergej Alesksandrovic  Esenin , figlio di contadini  credenti  , era convinto che la rivoluzione avrebbe avuto un carattere mistico  e il contadino sarebbe stato la guida  e il depositario della grande missione liberatrice del popolo russo , ma ben presto  si accorse che la rivoluzione non teneva in  nessun conto il mondo contadino. Da questa sua errata interpretazione ,  da questo contrasto  tra il suo mondo e la realtà della rivoluzione “proletaria”  , da questa sua non accettazione  della realtà ,  ebbero  origine   i suoi problemi e i suoi drammi esistenziali :  delusione ,  rabbia ,   frustrazione,   tormento , inquietudine ,  ribellione , atteggiamenti da teppista. Rischiò in più occasioni di finire in prigione. 

2.    Isadora Duncan

Questo suo atteggiamento di  rifiuto  della società in cui viveva e di rimpianto per un mondo irrimediabilmente perduto  lo si ritrovò nel suo volume di poesie “Ispoved’ chuligan”,  ossia  le confessioni di un teppista che  la famosa danzatrice  Isadora Duncan, che si trovava a Mosca nel 1921,  lesse  e apprezzò molto, tanto che non fece neppure in tempo ad esprimere il desiderio  di conoscere  il poeta  che  subito gli fu presentato . “ Leggetemi una vostra poesia”,   chiese  Isadora e Sergej  non si fece pregare.  Nella sua voce c’era tanto fuoco e tanta sensualità . Per  Isadora fu subito amore , quella sera stessa , più volte ,  nella suite d’albergo e poi ancora  per tutte le Russie .  In capo ad  anno erano sposati  e lontani . Fecero una luna di miele che era un carnevale  continuo  che durò quasi  un anno intero,  un anno di alberghi ,  grandi bevute , orgiastiche feste con uso di hascisch , oppio e cocaina  ,   e scorrazzate a tutto gas   con   una fiammante automobile rossa  per tutte le strade di mezza Europa. 

3.    Il divorzio
Al  secondo anno continuavano a bere , a fare qualche  “festino”  ,  ma  il fuoco  dell’amore  s’era  spento  e Isadora si faceva le sue brave scappatelle ora con un domatore  di tigri bulgaro ,  ora con  violinista ungherese;   al  terzo anno erano  già divorziati ed Esenin  ritornò in patria logorato nel fisico  e nella mente,  schiavo dell’alcol  e della cocaina.   Fin da giovanissimo ,  era stato un  cantore della natura e delle terre russe , delle tradizioni e delle leggende della sua patria , che aveva saputo descrivere con accenti di accorato lirismo. Ma dov’era più quella Russia che tanto amava? In uno dei rari  momenti di lucidità , Esenin decise di ritornare al “ paese natìo”  con l’illusione ,  più che speranza,  di  veder     risorgere dalle proprie ceneri ,     come l’araba fenice ,   la Russia idilliaca  dei ricordi e degli incanti fanciulleschi , quasi un ultimo tentativo di poter ricuperare  una dimensione perduta ,  ma  tutto si risolse in un fallimento .

4.    La patria

Vedeva  ormai , con  amarezza e stupore doloroso , che la sua patria antica  non esisteva più,  era scomparsa   del tutto ,  perduta per sempre   al suo cuore  antico di contadino  irrequieto e tormentato. Anche al suo paese nessuno lo aveva riconosciuto.  In quella Russia Sovietica che era sorta non  c’era più posto per lui. Era diventato troppo difficile viverci. Prese il primo treno che lo portò a Leningrado e lì, in una stanza di infimo ordine , pose fine alla sua esistenza.Forse  prima dell’istante fatale ,  Esenin rivide i flashes del suo burrascoso  rapporto con Isadora Duncan:  i suoi eccessi, la sua teatralità ,  la sua fame di  sesso ,  il bisogno di alcool e droga , Isadora che si divertiva  spesso   a  sfotterlo pubblicamente   per il suo cattivo inglese e i suoi modi   timidi e impacciati da contadino russo qual era.   Lei invece era di San Francisco ,  ma  faceva la snob. Ci teneva ad essere  considerata “cittadina del mondo” ; viveva a Parigi   con il suo corpo di ballo ,  affascinata dalle teorie  di  Delsarte ,  e si sentiva figlia purissima  della  antica Grecia  e dei suoi ideali artistici,  perciò  rifiutava  canoni e forme della danza accademica ,   esprimendosi   – in tuniche severe e drappi antichi      con movenze    più libere , “ secondo natura”. 

5.    Mangiatrice di uomini

E il pubblico era con lei, decretandole grandi successi.   Isadora   era sicuramente una grande  artista ,  ma anche   donna capricciosa e  volubile ,  una mangiatrice di  uomini   ( “una vera troia”,  disse Esenin ad un suo amico )   che aveva avuto una teoria infinita di amanti  e anche di mariti ( ne ebbe cinque)  ma rimase  sempre legata  sentimentalmente al suo Pigmalione ,  il regista americano  E. Gordon Craig , l’innovatore del teatro , colui che per primo fece uso degli “ screens” ( i pannelli)  Era lui che aveva detto a Isadora di eliminare le scenografie e fu lui a  fondare , per primo,  una scuola teatrale  in Italia , a Firenze ,  e  allo stesso tempo  una rivista specializzata   ( “The Mask)  d’avanguardia . Quando Isadora conobbe  il ventiseienne Esenin ,  aveva  già quarantaquattro anni  e  Craig aveva superato la  cinquantina,  tra di loro  non c’erano rapporti  sessuali , ma  un profondo affetto   e molta complicità.  Isadora  s’innamorò pazzamente di Esenin e  per un anno lo “divorò” letteralmente di baci e carezze fino alla consumazione dei sensi , e non  perchè  Sergej  fosse il poeta arrabbiato ,    ma perchè era un vero campione di bellezza slava e di furente vitalità contadina. Finito l’impero dei sensi, ovviamente tutto naufragò e a rimetterci fu soprattutto Esenin , che era più fragile psicologicamente . Sul  loro difficile menage , che andava bene solo in camera da letto ,  si stagliò  anche  l’ombra lunga del grande   Craig , che  nel suo libro “ The actor and the uber-marionette” non  fece  alcun mistero delle sue idee sul teatro .Lo  spettacolo  appartiene al regista  , mentre l’attore  è solo una super-marionetta che segna  il ritorno ai valori  disumanizzati delle maschere antiche.  E per  lui  probabilmente  sia  Sergej  che Isadora   erano marionette-tou-court.

6. Vecchia puttana

La danzatrice   era  acolizzata e cocainomane  e  trascinò   su quel versante  anche il  poeta russo, che una sera per ferirla le disse:    Isa, a  teatro  sei  splendida come un’ onda  marina , credo che il mare stesso t’invidi ,  ma  come donna  conosci solo  il vizio e  l’immoralità . A letto  ormai sei  solo una  vecchia puttana ”.  Isadora  lo cacciò dalla stanza e non volle più vederlo.  Si trovavano in un albergo di Nizza , era inverno . Esenin non aveva un soldo in tasca ed era ubriaco.  Dormì fuori , all’addiaccio, con sette  gradi sotto zero.  Si buscò una polmonite e stette per morire. Ormai il loro rapporto era andato. Dimesso dall’ospedale rientrò in Russia, per suicidarsi l’anno dopo.
Intanto Isadora aveva un nuovo amante , un bellimbusto parigino di ventisette anni .  Si trovavano sulla costa azzurra e  lui guidava una fiammante decapotabile ,  sul lungomare .  “Andiamo al Casinò, che ne dici? , disse il giovanotto.  
Isadora annuì.  Era felice.  Cominciarono a correre ,   lei rideva  e scherzava,  aveva  completamente dimenticato  Esenin  e la sua malinconia . Aveva una rinnovata voglia di vivere, si sentiva felice . Assaporava la brezza marina che  le faceva  danzare la lunga sciarpa di seta rossa per cui andava famosa: “Oh, Dio, che gioia vivere!” , pensò   e subito dopo  il  lembo terminale  di quella fatale sciarpa  andò  a infilarsi nei raggi  della ruota anteriore  dell’automobile e provocò   una vera e propria impiccagione   per la povera Isadora. Era uno splendido mattino di aprile del 1927   e   la campagna  francese era  come una fanciulla  che va  alle nozze ,  tutta vestita  di  fiori di mandorlo e di pesco.