venerdì 20 gennaio 2012

Dino Campana, poesia e manicomio

QUEL MATTO DI  POETA
DINO CAMPANA


DI AUGUSTO BENEMEGLIO
                  
1.     Mat Campena
Dino Campana è  autore di un solo libro , “I canti Orfici”  , stampato a suo spese in una tipografia di Marradi , il paese vicino Firenze , al confine con la Romagna , in cui nacque il 20 agosto 1885 ,  e dove tutti lo ritenevano pazzo, tant’è che lo chiamavano “Mat Campena”, un paese in cui amò , forsennatamente , con dolore e passione, con furia , una sola vera persona, poeta come lui, matta come lui, Sibilla Aleramo, che si era innamorata – per via epistolare - del suo talento , e la cui vicenda è stata abbastanza romanzata nel film (discutibile) di Michele Placido “ Un viaggio chiamato amore”:  “Vi amai nella città dove per sole/Strade si posa il passo illanguidito.Dove una pace tenera che piove/A sera il cuore non sazio e non pentito/Volge a un’ambigua primavera in viole/Lontane sopra il cielo impallidito….In un momento /Sono sfiorite le rose /I petali caduti /Perché io non potevo dimenticare le rose /Le cercavamo insieme /Abbiamo trovato delle rose /Erano le sue rose erano le mie rose /Questo viaggio chiamavamo amore /Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose /Che brillavano un momento al sole del mattino /Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi / Le rose che non erano le nostre rose /Le mie rose le sue rose
2.     Inadatto a vivere
Era nato lì, “Mat Campana” , in quel paese toscano dove parlavano il dialetto romagnolo , da un insegnante elementare siciliano complessato , desideroso di integrarsi ed emergere nella società piccolo borghese provinciale del piccolo paese di Toscana , fino ad arrivare ad essere “Direttore didattico “ ,  e  da Fanny Luti , una ragazza “puritana”  toscana  tutta “scialle nero sulle spalle e rosario tra le mani” , che  presto odiò pervicacemente quel figlio balzano e non cercò altro che di sbarazzarsene il più presto possibile , facendolo dichiarare pazzo dal marito  e condannandolo , infine , alla orrenda prigione  manicomiale.
Lui, Dino , era inadatto a vivere come tutti i poeti , ma era anche ribelle e disperato, anarchico , contro qualsiasi regola o disciplina ,  e fu costretto per tutta la vita a fughe, ritorni, viaggi, illusioni, chimere,  prostitute, visioni deliranti, ricoveri nei manicomi, ci mise del suo per farsi dichiarare pazzo e alla fine si riconobbe, fatalmente,  tale:“Il sorteggio della pazzia è toccato a me!/Allora avanti coraggio...Mi tuffo dal più alto precipizio della mente/ non c'è fondo... Oblio fedeltà, solo i dubbi assassini tormentano l'anima,/ma la pazzia possiede un'anima?.......Musica silenziosa che vuoi ballerine danzanti su note fantasma. Prendimi alienazione e portami con te in caverne primitive dove l'essere razionale è escluso... inebria l'abulia dell'animo di dissomiglianza di saggezza invecchiata.Tienimi pazzia...tienimi!


3.     I canti orfici: il libro che non volle nessuno
Quell’unico libro che “Mat Campena”  scrisse  e pubblicò nel luglio 1914 , a sue spese, mille copie, senza neppure uno straccio di prefazione , così nudo e spoglio ,  un’ edizioncina scorretta e modesta, che venne rifiutata da tutti , quel libro che il vagabondo e bizzarro poeta  – che fece tutti i mestieri possibili , da bracciante a mozzo , fornaio , straccivendolo , minatore, pescatore , ecc. -  vendeva come ambulante , per strada, a volte scerpandone le pagine, cassando poesie non  più grate o immaginate non gradevoli al possibile acquirente; quel libro che  non arrivò mai neppure  in una libreria degna di questo nome ,  era uno dei più importanti della poesia italiana del ventesimo secolo. Parlava di tante cose nuove e moderne , terribili e meravigliose . E parlava anche di  Marradi,  il suo paese natìo , come nessun altro poeta aveva mai saputo fare prima di lui: “Il vecchio castello che ride sereno sull'alto /La valle canora dove si snoda l'azzurro fiume /Che rotto e muggente a tratti canta epopea /E sereno riposa in larghi specchi d'azzurro: /Vita e sogno che in fondo alla mistica valle .Agitate l'anima dei secoli passati: /Ora per voi la speranza /Nell'aria ininterrottamente /Sopra l'ombra del bosco che la annega /Sale in lontano appello /Insaziabilmente /Batte al mio cuor che trema di vertigine. Ma nessuno si  era curato di quel libro , dei suoi versi e prose d’arte ,  benché lui ne avesse mandato qualche copia ai letterati fiorentini  del tempo, che si riunivano  al caffè “Le Giubbe Rosse”   e  che lo trattavano come un povero mentecatto , un abusivo delle lettere , un “pezzo di merda”, come disse il solo amico che lo comprese, Giovanni Madaro.  A Marinetti e ai futuristi, a Papini e Soffici , Campana aveva scritto ardenti messaggi:  «Che  la vostra speranza sia: fondare l'alta coltura italiana. Fondarla sul violento groviglio delle forze nelle città elettriche sul groviglio delle selvagge anime del popolo, del vero popolo, non di una massa di lecchini, finocchi, camerieri, cantastorie, saltimbanchi, giornalisti e filosofi come siete a Firenze». Naturalmente nessuno gli aveva risposto. Del resto , Ardengo Soffici  lo  considerava un dilettante della letteratura a cui mancavano le basi ,  un povero illuso, insomma;  Marinetti e i futuristi lo trattavano con il consueto sprezzo ed idiozia , Prezzolini con gelida superbia , Papini con forte antipatia. Tutti dicevano che le sue poesie erano “robetta da fiera “, e tale venne ritenuto il  manoscritto  ( copia unica)  che il povero Dino aveva consegnato l’anno  prima  agli illustri direttori della rivista Lacerba , appunto i signori Papini e Soffici .
Era  la sera al 13 dicembre 1913 e lui si era presentato  alla porta  della redazione con un vestitino leggero , affamato ,  intirizzito dal freddo , con un manoscritto sotto il braccio dal titolo “ Il giorno più lungo “ , dicendo loro con un filo di voce:  “ Tutto quello che troverete qui  dentro è la sola difesa e giustificazione della mia vita”.
4.     O poesia, poesia…
O quando o quando in un mattino ardente/ l'anima mia si sveglierà nel sole / nel sole eterno, libera e fremente.
Lì dentro c’era la poesia , che non tollera reclusioni, il canto - liberazione dagli affanni, il desiderio- sogno- ricordanza- avvenire che fluisce , la parola costretta al silenzio che  si sprigiona e s’innalza come urlo- lama- luna elettrica, pura energia .O poesia poesia poesia/Sorgi, sorgi, sorgi/ Su, dalla febbre elettrica del selciato notturno/ Sfrénati dalle classiche silhouettes equivoche/ Guizza nello scatto e nell’urlo improvviso…
Lì dentro c’era poesia  pura e dissonante come bronzo sonoro di una campana, come il vuoto della notte, come i buchi neri che ti risucchiano nel magma dello spirito. Ha generato una pioggia di stelle /Da un fianco che piega e rovina sotto il colpo prestigioso /In un mantello di sangue vellutato occhieggiante /Silenzio ancora. Commenta secco /E sordo un revolver che annuncia /E chiude un altro destino
Dino aveva bisognoso di essere riconosciuto, aveva bisogno di essere trattato con affetto , sia  come persona, come poeta. La sua era un’invocazione. Per tutta risposta , i due letterati fiorentini  non lessero mai quel manoscritto , lo  buttarono chissà dove e andò disperso nel mucchio delle altre carte inutili ( Fu ritrovato soltanto nel 1972, quando Dino era morto da oltre trent’anni) .

5.     Ecco Genova
E fu così che quel povero Mat Campena dovette riscrivere “I canti orfici “, un libro che ricostruì con la fatica , le sofferenze e la furia di un gigante che non riesce a ricomporre la propria immagine, lo ricostruì con la follia del suo genio poetico , con i fantasmi le ombre e le visioni del suo lungo vagabondare di città in  città , ovunque discacciato , senza soldi e senza lavoro , miserabile straccione erratico , ed ecco Genova , la città dove gli infidi genitori l’avevano accompagnato nel 1909 e imbarcato su una nave per l’America del Sud , per un viaggio che doveva essere “senza ritorno”. Lì a Genova c’era  tornato  e aveva fantasticato amori angelicati, ma in realtà si era dannato i sensi e l’anima  con le prostitute del porto ( probabilmente fu lì che contrasse la sifilide)  a  Genova aveva fatto il mozzo e lo scaricatore di porto , a Genova s’era sentito un vero poeta , ci aveva vissuto con il “giorno che precipita rapidamente nella malinconia della sera, nel tremore notturno, nel buio dello spirito. Genova divenne così il centro della poesia di Mat Campana: Pensare nel languore/Catastrofi lontane/Mentre colle sue antenne/E le sue luci un grande/Cimitero il tuo porto…Ne la città voluttuosa/Scuotevasi il mare profondo/Caldo ambiguo il silenzio sullo sfondo/Le navi inermi drizzavansi in balzi/Terrifici al cielo/Allucinate di aurora/Elettrica inumana,risplendente/A la poppa ne l’occhio incandescenteAcqua di mare amaro/Che esali nella notte:/Verso le eterne rotte/Il mio destino prepara/Mare che batti come un cuore stanco/Violentato dalla voglia atroce/Di un Essere insaziato che si strugge…
Genova fa comprendere meglio l’intensità, la pienezza, la simbiosi affettiva che Dino prova nei confronti di un mondo che non riesce a separare da sé e che gli è ostile. Il Poeta e Genova sono stretti in un abbraccio, mai città fu cantata in quel modo così intimo da sembrare osceno.

6.     Voglio creare un’arte nuova
Campana , in questi ultimi anni , è stato molto rivalutato , fatto oggetto di romanzi (noto quello di Vassalli “La notte della cometa”), di ricostruzioni cinematografiche, di pièce teatrali, di recital, documentari, film, innumerevoli conferenze, dove si parla della grandezza e dell’importanza della sua poesia.
Dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando /Come una melodia: D'ignota scena fanciulla sola /Come una melodia /Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola... /Illanguidiva la sera celeste sul mare: Dai più lontani silenzii /Ne la ceste sera varcaron gli uccelli d'oro: la nave /Già cieca varcando battendo la tenebra /Coi nostri naufraghi cuori /Battendo la tenebra l'ale celeste sul mare... …E vidi come cavalle /Vertiginose che si scioglievano le dune /Verso la prateria senza fine /Deserta senza le case umane /E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve / Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume, /Del continente nuovo la capitale marina.
Ma da vivo , Dino Campana , non ebbe  nessun  riconoscimento per la sua poesia,  allora disprezzata e denigrata come  robetta da fiera , mentre oggi la sua voce poetica  , simbolica-metafisica ,  trasfiguratrice , con una sua ricerca consapevole e ostinata di un’idea  di Alta Poesia , che si nutre di diversi materiali d’arte ( musica, pittura , scultura, poesia)  riscatta  gran parte della poesia italiana del ventesimo secolo , che lui stesso aveva definito  “ Industria del cadavere / Si Salvi Chi Può» , quella Letteratura  Ufficiale che , da lui stigmatizzata (“Vogliono creare un'arte nuova per forza di pettate!. Questa civiltà letteraria mi ha messo addosso una serietà terribile. Perciò io sono anche tragico e morale. D'Annunzio è il Vate del grammofono,  i futuristi rappresentano l'imperialismo borghese frasaiolo dell'Italia giolittiana, Benedetto Croce è il campione del nulla “) stenta ancor oggi ad includerlo nei suoi repertori come presenza consacrata
6.Il sangue del fanciullo
La sua è  una poesia che conquista , sia per quel suo furioso potente e straziante impasto verbale visionario , che per   quel  suo incanto notturno . E’ poesia  fonico-musicale scritta apposta per essere recitata , ;è  poesia di immagini –ricordi  dei  paesaggi toscani  , che fa rivivere il grande Piero della Francesca , Michelangelo , Leonardo, ma anche Cezanne, i cubisti e i futuristi  , ma è anche poesia con scaglie carducci ane e dannunziane, che riecheggia i  rondisti ermetici , ma che ha come punti di riferimeno i suoi prediletti , i grandi maudit : Baudelarie  Verlaine Rimbaud ,  e poi gli americani Poe e Witiman, soprattutto quest’ultimo ,  guida spirituale della sua poesia e vita. Infatti , scrive a Cecchi una lettera che è un po’ il suo testamento spirituale citando i versi del poeta americano : “Se vivo o morto lei si occuperà ancora di me, la prego di non dimenticare le ultime parole del mio libro: “ They were all torn /and cover’ d with / the boy’s blood” (Essi erano tutti stracciati e coperti con il sangue del fanciullo).
         Chi sono coloro che si macchiarono del “sangue del fanciullo”?
Tutti: i genitori, i compaesani, i letterati dell’epoca.   E gli psichiatri. Che usarono il poeta per i loro esperimenti con l’elettricità  quando l’elettricità era solo un esperimento punitivo (Ci fu uno psichiatra che scrisse un libro su di lui che fu  pubblicato proprio da Soffici e Papini per la Vallecchi, “Vita non romanzata di Dino Campana”).
La verità è che la vita di Dino fu un vero inferno, fin da ragazzo, e gli ultimi quattordici anni trascorsi in manicomio, dove morì di sifilide non furono che il prolungamento estremo della sua vita tormentosa e dolorosa.Carmelo Bene che recitava Campana come nessun altro, prima di iniziare diceva sempre: è morto dopo quarant’anni di manicomio. Un giorno uno spettatore gli disse: “Maestro, ma Campana in manicomio è stato solo 14 anni, dal 1918 al 1932, quando morì…Al che Carmelo scosse la testa: no, no, furono proprio quarant’anni…E come dargli torto?

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