venerdì 6 gennaio 2012

Grazia Deledda scrittrice dimenticata

GRAZIA DELEDDA
UNA SCRITTRICE “INGIUSTAMENTE” DIMENTICATA?
                          


DI AUGUSTO BENEMEGLIO

  1. Barbarica e corrusca raffinatezza
Diciamolo subito, la Deledda è una scrittrice dimenticata , e non da oggi. Già nel 1938, appena due anni dopo la sua morte , nella “Storia della letteratura italiana” di Mario Sansone , volume destinato alle scuole medie superiori nella riedizione del 1958,  le vengono dedicate ventotto  righe, qualcuna in meno rispetto ad un Prati e a un Aleardi,  e la si liquida come autrice da  “Sardegna mia”  e  “sincero – ma confuso – impegno morale”.   E oggi , che ricorre il 75° dalla sua  scomparsa , avvenuta a  Roma il 15 agosto 1936 , a seguito di  un cancro al seno, Grazia Deledda  è praticamente  sparita dall’orizzonte letterario , non la conosce più nessuno, - tranne un ristretto gruppo di aficionados , quasi tutti sardi o  di origine sarda con la nsotalgia di cavalli dalle reni d’argento, Gennargentu e il mare che va loro incontro tutte le notti - ; la si è dimenticata  nonostante il Nobel assegnatole nel 1926 , che rimane a tutt’oggi l’unico trofeo della narrativa italiana , considerando che Pirandello è certamente più drammaturgo che romanziere,  tre sono poeti e l’ultimo  (Dario Fo) è un “ narr-attore” . Di  questa “ingiusta” (?)  dimenticanza si è indignata Valentina Fiori nel blog letterario  Linutile” con un post  monografico interrogativo :  “Può un nobel venir dimenticato?” Ma certo che  sì, Valentina, ( sono pochissimi i Nobel che si ricordano ) ,soprattutto se quel premio è discusso fin dal momento in cui viene assegnato.  Va detto , per onestà, che c’è sempre stata nei confronti della Deledda  , da parte di certa critica  letteraria  italiana  un po’ di  puzza sotto il naso ,o  un atteggiamento di ipocrisia ; poi è calata una specie di cortina  tra l’imbarazzo  e il  silenzio , tra il rispetto e il fastidio ,  tra la noia e (talora)   il disprezzo  per la sua cultura da autodidatta , per l’ingenuità  e  le carenze del suo stile. E anche quelli che , sostanzialmente,  hanno apprezzato la sua opera  non hanno sottaciuto gli aspetti  negativi  della stessa :   “Ha un non so che – scrisse  Emilio Cecchi -  di barbarica e corrusca  raffinatezza…ma ciò che ella trae dalla vita  della provincia sarda  non è naturalismo , né verismo . Il fondo della Deledda è istintivo, pressochè incolto”
“Tanto i motivi  e gli intrecci, quanto  la struttura linguistica , in lei,   hanno qualcosa di lirico e di fiabesco”, - scrisse  D.H. Lawrence nell’ introduzione al suo romanzo “ La madre”, - ma  l’interesse del libro non risiede nell’intreccio , o nella rappresentazione dei caratteri , bensì nell’illustrazione della pura vita istintiva” 
E anche uno come Momigliano , che la paragonò , per il carattere solennemente morale che si riscontra nelle sue opere  maggiori ,  a Gonciarov, Gogol, Tolstoj , Dostoevskij, fa ogni tanto marcia indietro:  “ …il tessuto della sua arte è dato soprattutto da quelle scene d’apparenza banale , che tuttavia lasciano l’impressione di una rara forza nel rappresentare e caratterizzare …Certo non voglio affermare che la Deledda abbia creato dei personaggi incisi con la precisione degli eroi proverbiali della letteratura…” …E poi dice che :”non è un’illetterata” , ma comunque è assolutamente estranea alle tradizioni letterarie .


  1. L’amore e il vento
Ma chi era veramente Maria Grazia Cosima Deledda  ( questo il nome completo) , questa  “selvaggia” delle lettere  fatta d’argento rame e quarzo , che dotata di  grande istinto , ma anche eccezionale forza d’animo , stratega nata , abituata a tenere sotto controllo i propri sentimenti , ambiziosa , affamata di vita e di futuro , e con una sensibilità che conobbe tutte le disperazioni ,  un  intuito e straordinario e un  empito di passione morale  ( Momigliano disse che Elias Portolu  era il libro di più alta e solida moralità dopo i Promessi Sposi!), seppe , in pochissimi  anni  ascendere ai vertici della narrativa italiana , sbalordire tutti e tutto ? .
Era nata a Nuoro il 27 settembre 1871 , sotto il segno della Bilancia  , segno d’aria e di  Venere , colorato di verde primavera , segno di coloro che ricercano l’equilibrio sopra ogni cosa ; ma anche segno di chi è nato per vincere . La sua  era una piccola città “ dai tristi inverni”, fatta di “casette, basse, nude, mal costruite, brune” , dove viveva alla “penombra della fiamma”,  tra i mormorii di una gente sospettosa , in una terra dal doppio isolamento , culturale e anagrafico, e la sua sorte sembrava inevitabilmente segnata come quella di tante piccole ragazze brune nuoresi  del suo tempo, senza che avesse nessun fascino, nessuna attrattiva particolare ( c’era in lei un po’ di sole e pietra, fuoco e nebbia, tra gli alberi scuri e i cavalli di rame , poi la notte , e la luna che tramonta chissà dove) ... Invece , questa piccola donna sarda ci viene incontro  con la sua audace e indomita fierezza arabo-fenicia , su uno sfondo corrusco della Barbagia , come un presepe vivente , i pastori, i contadini , i servi , gli artigiani , il lavoro aspro e faticoso in quella  terra dura ,chiusa , avara ,  che splende di un’arcaica , incontaminata bellezza. Entriamo nel mondo della sua scrittura : le notti animate da fate , folletti, insetti, uccelli , e il mare , lontano, estremo, limite irraggiungibile di quiete , di pace. E poi l’amore e il vento , un amore ambiguo, d’ombra e d’oro,  travolgente , incestuoso , drammatico , fatale , crudele , colpevole , vetro e fiamma ; un amore febbricitante , tempestoso , in una società contadina  oscillante tra la fede cristiana e la superstizione pagana: “Si amavano come dovevano amarsi le coppie primitive, nelle  foresti giovani del mondo appena abitato(…) le pareva di essere portata via da un vento, da un turbine di voluttà; e diventava anche lei selvaggia , perdeva facilmente la leggera scorza di civiltà che l’avvolgeva in tempi ordinari; ritornava ad essere la ninfa ignuda che aspetta il fauno tra l’erba a cui era ignota la falce . ( “La via del male”)

  1. Fuggire dall’Isola
Ma  Grazia , come donna , non era una canna al vento piena di voluttà d’amore selvaggio, non era una ninfa che dormiva ritta abbracciata ad un olmo, non era una larva che languiva e rifioriva , non era un simulacro di fiamma vera. Era pratica, disinvolta ,  lucida, attenta, sicura di sé, con i piedi ben fermi e solidi nella terra ferma, come attestano  certi suoi comportamenti, certe sue scelte, certi documenti.  Del resto , basta guardare certi suoi ritratti giovanili per capire di che tempra era fatta: aveva lo sguardo scuro e obliquo , assolutamente privo di timore, o timidezza, con una determinazione feroce;  aveva una forte personalità e un’immensa autostima. Era convinta che sarebbe riuscita a diventare “qualcuno” nella vita , nonostante avesse coscienza del suo isolamento, della sua ignoranza , delle arretratezze in cui era costretta a vivere (aveva studiato solo fino alla quarta elementare, limite estremo per le donne nuoresi di quel tempo, ma poi aveva  avidamente letto molti libri ereditati da uno zio prete ) . Grazia sapeva , fin dalla prima adolescenza , fin da quando ebbe coscienza del suo destino , della sua vocazione  ( cominciò a pubblicare novelle che aveva appen diciassette anni e già sognava il successo sotto la coltre luminosa delle sue prime albe) , che per realizzare le sue aspirazioni, avrebbe dovuto fare rinunzie dolorose  , lasciare i suoi affetti ,in primis  andare via dall’isola , anche se ciò le sarebbe costato molto.  Come Antonio Gramsci, e tanti altri illustri sardi , sarebbe fuggita  da  un paese dove “tutti   si conoscevano, tutti si giudicavano severamente, e quelli che meno avrebbero dovuto scagliare la prima pietra, erano i più inesorabili
Nel suo confuso progetto  di liberalizzazione , non poteva “entrare” l’amore, quel batticuore di selve , fiori , attese , luci , ombre e acqua torrida , che era l’amore . Nella sua costante  ricerca di equilibrio , lei aveva  subito  rinunziato all’amore , per una vita più libera e moderna, che le consentisse di diventare una scrittrice vera . Aveva poco più di vent’anni , parlava prevalentemente in dialetto sardo e non si era mai mossa da casa , se non per andare a cavallo sui monti che circondavano Nuoro , ma era già  la ragazza più ambiziosa che  esisteva in Sardegna , e faceva di tutto per essere all’altezza di tale reputazione.  I suoi erano preoccupati per quella sua mania di scrivere e temevano che non riuscisse a trovare  marito , perché non era bella, non era ricca, né tantomeno sottomessa, e in casa non sapeva fare nulla.  Ma lei sapeva benissimo ciò che voleva , e in quel periodo  (siamo  nell’estate del 1892)  scrisse una lunga lettera all’ “illustre” professore piemontese  Angelo De Gubernatis, indianista di fama internazionale , docente universitario di letteratura all’Università du Roma , fondatore di riviste letterarie , poligrafo, antropologo,  avventuroso viaggiatore e infaticabile seduttore: “Vivo in un paese tanto pittoresco quanto disgraziato;attraverso il circolo di montagne deserte e leggendarie che chiudono il mio orizzonte, sento tutta la modernità della vita , dei tempi nuovi e dei nuovi ideali…La mia vita è silenziossima. Vivo in una casetta tranquilla , perduta in una piccola città  che è poi un grosso villaggio…Sono piccola , pallida e bruna …Finora nessuno mi ha mai aiutato e pochi mi hanno compreso…   Fu la prima di una lunga serie di lettere che i due si scambieranno nel corso di ben diciassette anni.


4.Sono brutta, non so parlare e non so vestirmi

Il  cinquantaduenne De Gubernatis rimane affascinato da questa ragazzetta che non ha mai visto e che  finora ha scritto solo robetta per riviste femminili , ma è ambiziosa , vuole a tutti i costi diventare una scrittrice affermata (  si spaccia  per etnologa , studiosa  del folklore sardo , pur di scrivere per la  rivista di tradizioni popolari fondata dallo stesso De Gubernatis ) , e nel corso della corrispondenza tenta di sedurla , vorrebbe conquistarle il cuore (e anche il corpo, magari). Insomma le scrive  che vuole conoscerla di persona, le parla  anche d’amore.  Dice che verrà a trovarla a Nuoro. Ma lei nicchia, si nega , lo blocca , non è il caso che il professore si scomodi, e dimostra di essere dotata di sarcasmo e autoironia: “ Senza dubbio – gli scrive – è la mia originalità che ti attira: tu senti che io sono diversa dalle altre ragazze  che puoi avere conosciuto fino ad ora…Ma sappi , caro Angelo, che io sono brutta , non so parlare , non so vestirmi , non amo e non posso amare …Non m’importa nulla se tu qualche volta mi parli d’amore.A me interessano altre cose”.
Grazia era ( o voleva essere ) tutto il contrario dei personaggi dei suoi romanzi , che vivevano in una  società immobile, chiusa,  arretrata , esposta agli abissi dell’incesto , tra cognati, tra zii e nipoti , tra cugini carnali ; stati morbosi , eros , tradimento, abbandono, vendetta , odio come una malattia dell’anima che consuma , che corrode, che distrugge.  Lei era  lucida, attiva, ricca di iniziative , aveva tenacia e astuzia. Voleva dedicarsi anima e corpo alla letteratura , e insieme mantenere rapporti costanti con editori di varie città italiane, stringere alleanze con intellettuali , istruirsi , informarsi , proporre articoli anche sugli scritti altrui , cercare recensioni per i propri,  insomma aveva tutte le doti necessarie  non solo per   costruire un’opera , ma edificare una carriera. E tutte le sue scelte, ivi compresa quella di sposare, senza amore, un mediocre funzionario ministeriale romano, conosciuto casualmente a Cagliari  ,  in uno dei suoi rari spostamenti , nell’ottobre del 1899 , o quella – sicuramente dolorosa - di lasciare la Sardegna e vivere a Roma, furono orientate in quella direzione, oserei dire con sapiente e ferrea strategia.

5-I “ mammutones”
 Le interessava solo la scrittura , era la sua ossessione , la sua vita , e  avrebbe voluto essere un po’ il Tolstoj della Sardegna, che era il suo idolo e il suo modello.  Appena lasciata l’isola , nell’aprile del 1900 , ecco raffluire  in lei un’ondata immensa di saudade  che si riverserà  in tutti i suoi libri  , ecco il privilegio della memoria , delle radici , dell’armonia ritrovata come per incanto , eccola ricreare  quel clima , quell’atmosfera di  decadenza , di disfacimento dell’antica società sarda , delle  famiglie  aristocratiche che vanno in rovina , riecco  il barbarico fondo dei miti religiosi , delle feste, delle tradizioni locali, fra sangue e l’ ascesi . E  alla fine quella ricerca assoluta della pace interiore, della dignità morale, della  liberazione dall’incubo del peccato , del rimorso.
Ma le sue sono ricostruzioni “mitiche” , simboliche ,  legate alla sua infanzia e adolescenza , alla sua nostalgia , frutto di intuizioni e fantasticherie , senza alcuna vera documentazione  socio-storico-antropologica e   illustrativa . Infatti i primi a non riconoscere quella Sardegna , né a riconoscersi in quei caratteri e in quei personaggi  sono  proprio i suoi concittadini , che s’indignano con lei, protestando vivamente per essere stati rappresentati come “mammutones”, ovvero maschere  che si muovono a scatti in una dimensione innaturale di mimesi disperata”
 E poi nei suoi romanzi  ci sono  omissioni , ingenuità, farragini, cadute di stile, noia, mediocrità,- scrive  Renato Serra, -  che la pongono a distanze siderali da Tolstoj e gli altri grandi russi.
E tuttavia… i suoi libri  si vendono eccome! , i suoi libri vengono tradotti in tutte le lingue occidentali, con piena soddisfazione del suo editore e lei non ha neppure trent’anni! . Ma ancora prima , nel 1896, alla vigilia della pubblicazione del romanzo che le avrebbe dato notorietà nazionale, “ La via del male”, aveva piena coscienza critica di ciò che voleva fare , ed era qualcosa di diverso , non omologabile con la narrativa che era in circolazione.  Scrive infatti a  De Gubernatis: “Ho la coscienza d’aver fatto una cosa non sciocca , non nevrotica, non morbosa, come la maggior parte dell’odierna produzione italiana”.

6.      Io scrivo ancora male in italiano
Ed era vero. La via del male nasceva dalla rottura degli equilibri posti dalle comunità contadine e pastorale, da quella familiare, da quella cristiana  e universale del non uccidere , del non commettere adulterio, del non desiderare la roba d’altri.  Il senso di colpa , l’incubo , il rimorso , il dolore , la dannazione dei due amanti per l’omicidio commesso  è una condanna inesorabile , assoluta :  nessun medico poteva guarire il loro male, nessun giudice poteva condannarli ad un pena maggiore di quella a cui erano condannati”
In quel solco  fatto di  superstizione, mistica del delitto e castigo dostoevskiano, la Deledda delinea e configura  la Barbagia alla stregua di  certi sperduti villaggi russi , il luogo di passioni ancestrali , dei comportamenti tabù  che nella loro esemplarità possono essere assunti come allegorie dell’eterna storia dell’errore del castigo , del dolore umano. Gli uomini sono esposti come fragili
“Canne al vento”, il titolo è tratto da Pascal e in qualche modo emblematico , ma l’attenzione della scrittrice si volge – come sempre – più alla  contemplazione di un’atmosfera ( la quieta rovina di una famiglia aristocratica , la cupa devozione di un servo  e il suo silenzioso rimorso) che ricorda se mai più quella lorchiana della Spagna del Sud , un’atmosfera di cupa ,  chiusa religiosità  legata alla terra , agli scongiuri, ai canti, ai racconti presso il focolare delle cucine , che le fa scorgere l’infinita miseria e solitudine dell’uomo  attraverso gli oggetti , i silenzi, le ombre, di un Dio lontano, di un Dio che non aveva volto umano , di un Dio che forse non esiste.
Questa  sua dimensione del narrare , tra il fantastico il mito e la leggenda di una Sardegna archetipica di nobili servi preti banditi pastori e contadini , questa  precisa scelta stilistica che permea e fascia tutti i romanzi più famosi della scrittrice ( Elias Portolu, Cenere, Edera,  Canne al vento , Marianna Sirca, L’incendio dell’uliveto, La madre) di un’atmosera sognante  , con  un alone di incanto primitivo , e di un animistico presentimento delle cose , un’ esistenza immutabile e senza tempo,  fa scoprire all’Italia, all’Europa, al mondo , la Sardegna , un’isola cupa dura chiusa orgogliosa fiera che richiama ora certi  paesaggi del Dorset  di “Giuda l’oscuro” di Hardy , ora l’Irlanda irredenta di Wilde e  Joyce , ora i boschi di betulle della Polonia di Conrad , o la campagna del Varmland svedese di Selma Lagerlof ;  infine  la tragica sprovvedutezza dei personaggi, il loro fatalismo di fronte agli eventi , il senso incombente della catastrofe, la mistica del rimorso, della condanna , dell’espiazione richiamano  alla mente tutta la letteratura russa dell’ottocento, che era allora quella più in voga  e apprezzata.
Grazie a lei – annota  Giustino Manca - la Sardegna  tenta  un dialogo alla pari con le grandi letterature europee , e soprattutto con quella  russa, popolo antropologicamente molto affine a quello sardo . E  può farlo , aggiunge Eurialo De Michelis, perché il suo verismo ha un respiro europeo , un verismo che riscattava il documento  in folklore , e il dramma etico-religioso  in modi e toni da leggenda , quasi di popolare ballata.  E fu probabilmente questo respiro europeo a far guadagnare alla Deledda , nel 1926, la stima degli accademici di Svezia, i giudici del premio Nobel. Ma fu importante anche il suo lessico – scrive Efisio Sulis – l’uso di una lingua sardofona , antiaccademica , svincolata da quella aulica della lingua italiana. Non fu  una sua precisa scelta stilistica (pensava in sardo ,e traduceva in italiano, come ammise lei stessa:  Io scrivo ancora male in italiano - ma anche perché ero abituata al dialetto sardo che è per se stesso una lingua diversa dall'italiana". ) , ma sarà uno degli elementi  importanti dei suoi romanzi.  

7.      La Noia 
Scrivere,  per lei , non fu mai solo lavoro, ma  vocazione, necessità, ossessione , monomania, e anche il suo vero unico divertimento:  “Nelle ore in cui non scrivo mi annoio a morte tanto che divento persino smorta in viso. Lo Scrivere è la mia vita , il solo raggio che interrompe la monotonia della mia troppo tranquilla esistenza”.
La noia  borghese di Moravia , la noia ossessiva di Casanova , la noia apocalittica di Cioran , la noia esistenziale di  Hedegger , la noia sociologica di Madame Bovary , la noia disperata di Schopenhauer , lo spleen di Budelaire , e la noia di Grazia Deledda , di una donna con una spaventosa ansia atavica ,  divorante , la tipica noia della donna “tout court” che sente il dovere di fare sempre qualcosa , anche un lavoro a maglia o un orribile “decoupage”. Grazia tentò di essere anche una buona moglie e buona madre dei suoi due figli , che adorava ( Sardus, il primogenito , aveva ereditato il suo amore per la letteratura , ma  fu colpito dalla  tisi e si spense subito dopo di lei , e Franz, che diventò un eccellento chimico) , ma sapeva solo scrivere , e lo faceva per quattordici ore al giorno, senza tregua. Il resto lo faceva male, e si annoiava terribilmente .

8.      Il successo
Già all’epoca della  conoscenza di De Gubernatis  aveva cominciato a cambiare le sue letture . Da Carolina Invernizio , Sue , Dumas  e Ponson du Terrail era passata soprattutto ai grandi romanzi russi, a Balzac, allo studio della Bibbia ,  Thomas Hardy, Byron,  Fogazzaro, D’annunzio , e tutte queste influenze le  ritroviamo  , trasfigurate, nei suoi romanzi .
A Roma , come detto , scriveva  senza tregua,  giorno e notte , e scriveva della propria terra, del proprio popolo, dei valori dei miti delle leggende , dei riti di cui si era fino allora nutrita , incoraggiata da grandi scrittori veristi come Capuana . Ed ebbe rapidamente successo:  i più importanti scrittori di quel tempo la vollero conoscere , fecero sodalizio con lei , la grande Eleonora Duse  volle fare  un film tratto dal suo romanzo “ Cenere”, un altro suo romanzo fu teatralizzato ( “L’Edera” ) , e i suoi libri erano tra i più venduti , spesso  tradotti nelle più importanti lingue occidentali ( lei , da parte sua, aveva appreso il francese e traduceva Balzac) . Scrittori famosi come Gorkij ne tessevano le lodi , (“Ci sono due scrittrici che non hanno rivali né nel passato, né nel presente: Selma Lagerlof e Grazia Deledda. Che penne e che voci forti! In loro c'è qualcosa che può essere d'ammaestramento anche al nostro mužik.») Ma  secondo alcuni letterati e critici  italiani Grazia  scrisse troppo (e male), manifestando le sue improprietà stilistiche , la sua irregolarità e disordine degli studi , la sua ingenuità.   Tuttavia i suoi libri continuarono   ad essere venduti ,  e gli diedero fama e allori incredibili , addirittura un premio Nobel per la letteratura , nell’anno di grazia 1926 ( prima di lei l’aveva avuto solo Carducci) , con la seguente motivazione: "per i suoi scritti di ispirazione idealista che con plastica nettezza dipingono la vita della sua isola natale e trattano con profondità e simpatia dei problemi umani in genere". A dire il vero sembra quasi che gli Accademici svedesi abbiano conferito il premio ad una scolaretta delle medie superiori, e probabilmente era quello l’intento, ovvero premiare la spontaneità, l’ingenuità, il candore, la elementarietà dei sentimenti primari dell’esistenza.  Era quello il periodo in cui s’intendavano valorizzare al massimo e riscattare  dal folklore  e dalla ballata , quei valori umani contenuti nella nuova corrente di “verismo”  dal respiro europeo che riscattasse le minoranze linguistiche.  Non a caso qualche anno prima il  premio era stato conferito ad  un'altra donna, la prima ad essere insignita del Nobel per la letteratura , una scrittrice svedese , Selma Lagerlof , per “La Saga di Gosta Berling, un romanzo che  si ispirava alle leggende e canzoni popolari delle campagne svedesi. I drammi morali, in forme epiche e fantastiche , il paesaggio, le atmosfere , le tradizioni scandinave in una naturale corrispondenza tra la dimensione del sogno e quelle della realtà, gli accademici  svedesi le ritrovarono in qualche modo rappresentati in quell'isola misteriosa , sconosciuta che era la Sardegna. E non andarono certo per il sottile per quanto riguardava  altri aspetti  legati alla scrittura  ,  non capirono che Grazia Deledda c’entrava poco o nulla col verismo.
Insomma, per dirla in  breve, la scrittrice sarda sta ancora pagando oggi una sorta di  “lesa maestà” , ovvero aver ottenuto  quel Nobel , che non fu mai dato a D’Annunzio , Svevo , Pascoli, Fogazzaro, Ungaretti , ect, per non parlare di grandissimi scrittori come Kafka , Musil e del suo coetaneo Proust .
9.      Un sorriso ironico
E’ vero che la Deledda  ha ottenuto riconoscimenti , forse, anzi certamente superiore a quelli che erano i propri meriti di scrittrice, ma non fu certo una sua colpa , né si esaltò più di tanto per quel riconoscimento.( I cronisti dell’epoca parlarono della sua grande modestia  di donna e di scrittrice ) e  se andiamo a ben vedere il Nobel non lo meritavano neppure Carducci e Quasimodo , per tacere di Dario Fo, così come tanti altri letterati di cui si son perse le tracce , e non se ne è mai più sentito parlare. . Ma tutto ciò rientra nel gioco delle scelte , non vince il premio il più meritevole , ma colui che in quel preciso momento  ha tutto  i venti a suo favore, in primis quelli socio-politici.
Ma quanto vale , oggi,  l’opera di Grazia Deleddda?  Il suo valore – scrive un fustigatore come Renato Serra - si lega, paradossalmente, ad una lentezza, ad un quieto ed eroico affaticarsi intorno alla scrittura. Nei risultati migliori , Grazia sa esprimere magistralmente il  suo fatalistico sentimento della vita, in pagine di commossa liricità, in un’atmosfera allucinante e incantata”.
Guardando il ritratto della  scrittrice “dimenticata” , (chi la conobbe dice che sapeva essere  ironica, che sorrideva restando seria , che sapeva essere spregiudicata e trasgressiva ) nel momento del suo fulgore , con quel viso fiero , quasi altero , forse lievemente sprezzante , dietro una maschera di durezza , sembra voler rispondere proprio con un sorriso velato di ironia , sembra voler rispondere   alla critica malevola , come  il suo corregionale Antonio Gramsci  “Io sono stata abituata dalla vita isolata, che ho vissuto fino alla fanciullezza, a nascondere i miei stati d’animo dietro una maschera di durezza , o dietro un sorriso ironico. Il mio vero pensiero non lo conoscerete mai , o forse sì, se andate a rileggervi i miei libri che parlano di infinite distese , di rughe sulla pelle, di delicata rabbia e carezze pietose , d’eterna nostalgia della mia terra, che  racchiude tutta l’antica bellezza del creato.. 
Roma, 5 gennaio  2012                                                       Augusto Benemeglio

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