sabato 7 aprile 2012

ITALO TRICARICO IL RIBELLE " ROSSO SALENTO"

ITALO TRICARICO IL RIBELLE " ROSSO SALENTO"
                          DI AUGUSTO BENEMEGLIO

Italo Tricarico non c'è più... Ed è perdita grave, è assenza che risuona quella di questo artista anarchico, ribelle, contro tutto e tutti , è come se mancasse lo spirito vitale del Salento coi suoi fichi d'india e i rovi e i profumi e il canto dei suoi colori accesi, vivi, che sapevano essere violini archi trombe e delicati passaggi di clarini, ci manca quella musica che ti va nelle vene e da queste nel cuore ti si accoglie; ci manca quel frangersi che è l'amore ascoltato, accolto, conservato , il rosso del mattino che rapido trascorre come ombra d'ala sulla terra; ma negli ultimi tempi, quando ci si incontrava ti vedevo sempre più spento, pallido, ritorto, vizzo , nei tuoi confini di quattro pareti sudate, nude, che sapevano di salso, e le tue ali ( alla Garcia Marquez) s'erano afflosciate , avvizzite , incollate le piume, era impossibile che potessi ancora volare, nonostante i tuoi sforzi , ti venivano meno le energie , ti stavi spegnendo come candela consumata.
Ma  ti voglio ricordare  quando eri l'Italo vitale che attraversava le pareti del cuore del Salento, come “ il  più salentino tra i pittori  “ come disse Antonio Mele . E parlava  della tua arte come di un  incanto puro,  esplosione cromatica e sentimentale , di humus nobile e popolaresco, viscerale carnalità, di   un  poeta che   anziché in versi , esprime coi colori il  suo inno alla gioia di vivere   , simboleggiata dal sole ,  dai girasoli , dal mare , dalla luna, dai  pesci , dai  papaveri accesi  come fuochi luminosi dall’anima nera . E quei papaveri  rossi,
ma  anche gialli e blu , ricorrono in quasi tutte le sue tele come i   pescatori  di Gallipoli , lemuri notturni stilizzati sotto la luna che inargenta il  castello e la città  bella , tra le reti, o nel grembo materno di case-lampare.  E poi quadri di  fichi d’india come  sogni di silenzi colorati , graffiti dell’anima meridionale , groviglio di crude  dolcezze (le spine e il miele )  e di vigilanti memorie insonni,  folgorazioni  che lui solo  sa cogliere dal torbido presente , o ascoltare nelle seduzioni delle voci  e  delle profezie , o tradurre dai  segni tra macchie e siepi  e muretti a secco,  nella ridondanza di curve di una superficie
ellenistica, nel remotissimo  silenzio del primo giorno di vita che prepara gli
accordi per i milioni di anni a venire  con il diafano misticismo esoterico ,
nella trepida presenza di carne incredula , nella labile trasparenza di una
bellezza barocca che  fugge e suggestiona  il  contrasto , la dicotomia  tra
il caduco e il sublime.
Italo Tricarico  dipinge tramonti , girasoli e   fichi d’ india ,  musicanti guaritori , lune calanti, sciamani, tutto è trasformato nella sua mente , nella sua pittura , in una sorta di Eden gallipolino  dove donne sensuali e bellissime sono fasciate di silenzio , sotto la casta luna, o immerse  nelle olive , o  nelle  distese  di papaveri , quadri fertili che fanno nascere mondi e qualcosa di vivo. Sotto il suo pennello il paesaggio salentino diventa emblema del mondo, si fa  tenero e violento, denso di terrestre spiritualità , pregno di ancestrale irrequietezza ,
allucinata memoria arcaica , sentimento di solitudine, Eden agonico.  Il tutto ,   in un linguaggio cosmico ed elementare come lo sono gli elementi della natura, in una sinfonia di toni e di spazi , in un’accensione cromatica che volge al rosso profondo, un inno alla sua terra,  da cui un giorno dovette emigrare , con la famiglia , perché non ci poteva campare . Al  nord , dove si recò a vivere , la sua arte si  nutrì  delle memorie di Gallipoli, di   stucchi , gerani , mignani corti e stradine labirintiche , dei bassi e dell’odore di orina , della cultura popolare e  barocca che gli si era appiccicata addosso , di quella vitalità pigra oscura fonda passionale cieca che se non trova sbocco diventa solo rabbia  impotenza malinconia e nostalgia. Nei suoi quadri rivivevano  i ritmi e le stagioni di Gallipoli , e così riecco le focareddhe , le processioni dell’Urnia , la  scapace di Santa Cristina l’acquarulu ,  la  puzza di pesce , i  tramonti da “bestie macellate”, il salnitro, la calce , le  rocce ispide , la profusione di nero e la miseria.  Erano come tanti  spigoli per la sua anima che  non trovava mai  riposo e si voltava e rivoltava su quei cari umidi spinosi dolci infernali sublimi luoghi dell’infanzia , che intanto  gli si andavano trasformando dentro e  diventavano  la sua ideale regione poetica , alimento perenne del suo estro , inesauribile fonte mitologica  delle sue
invenzioni

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