venerdì 30 marzo 2012

Vincenzo Cardarelli l'etrusco infranto


VINCENZO CARDARELLI


                                  DI AUGUSTO BENEMEGLIO

1.     Un uomo senza famiglia
Ormai  vecchio e malato da  anni , senza un lavoro , una pensione, una casa, una famiglia ,  seduto per parecchie ore del  giorno  ad un tavolo all’aperto del  Bar  Strega  di via Veneto, dove Fellini cercava l’ispirazione  per la sua “Dolce vita” , ridotto ormai a larva umana  (“Ora la mia giornata non è più | che uno sterile avvicendarsi | di rovinose abitudini | e vorrei evadere dal nero cerchio... | E sogno partenze assurde, | liberazioni impossibili... | Io annego nel tempo»), ridotto   a macchietta di caffè,  col suo cappottone  scuro  liso  e la sua sciarpa grigia ormai  consunta ,  che indossava sempre  - anche d’estate  -  , appartato,  coll’aria disdegnosa  e burbera ,  con la voce ormai ingarbugliata dalla paralisi  , deriso e  beffeggiato dai camerieri e dai garzoni , dai passanti ,  spesso irriso dai giovani cronisti  a caccia di indiscrezioni e impertinenze ,  che speravano  di estorcergli ancora qualche battuta sferzante , qualche sentenza fulminante , per cui  andava famoso , - moriva - cinquant’anni fa ,  a Roma,   praticamente  dimenticato da tutti  ,   Vincenzo Cardarelli , uno dei più importanti scrittori e  poeti  della prima metà del novecento. 
I barman e i  camerieri  lo sfottevano  chiamandolo “ professore”  e non sapevano – ignari - che era stato uno dei pochi veri autentici “maestri” della nostra non eccelsa  letteratura  di quell’epoca .
L’ etrusco  ( era nato a Corneto-Tarquinia, nell’alto Lazio, )  era sempre stato un “uomo senza famiglia”  , fin da piccolissimo . Il padre, con cui era cresciuto, ( la madre se ne era andata da casa e  l’aveva abbandonato in fasce )   gestiva un buffet nella piccola stazione del paese  , e non aveva mai trovato il tempo di occuparsi di lui. «Non potendo badare a me, mio padre si vide costretto a collocarmi ora qui ora là, a dozzina... Conobbi altre case... Il mondo mi allevò...”
Nazareno  Caldarelli  ( questo il nome all’anagrafe ) aveva frequentato di malaggenio le scuole d’obbligo  di Tarquinia , senza particolari risultati, anzi si era liberato al più presto  della scuola  perché  non si sentiva  integrato , i compagni lo sfottevano a causa di una poliomelite al braccio sinistro  .  Ma  forse  , al di là di queste frustrazioni ,  Cardarelli  era anche  un po’ misogino  per sua natura  («Io non crederò mai nella donna. Questa è la mia dannazione»)   , eppure scrisse  bellissimi  versi d’amore eterosessuale:  “Pure qualcuno  ti disfiorerà, bocca di sorgiva”…Su te, vergine adolescente, | sta come un'ombra sacra …Se ti veggo  passare/ a tanta regale distanza/ con la chioma sciolta/ e tutta la persona astata/ la vertigine mi si porta via  ), versi che io , nella mia adolescenza,  spesso ricopiavo sulle cartoline  che  mandavo alle ragazze di cui m’innamoravo  praticamente ogni giorno , in quel gioco di sogni , di incantesimi  e di misteri  che è l’età dei primi suoni e canti d’amore.
Era   uomo  anonimo , da camere ammobiliate e da caffè ( “ Luce senza colore, esistenze senza attributo , inni senza interiezione , impassibilità e lontananza ,  ordini e non figure, ecco quel che vi posso dare”) ,  eppure  fu  nei caffè di Roma  -  in particolare - ,  ma anche  di Firenze   , di Genova  e  di Milano , fu nelle  camere  d’albergo  di quelle città  che scrisse le sue più belle opere – I prologhi, Viaggi nel tempo, Favole e memorie ,  Il Sole a picco, Villa Tarantola, Il  Viaggiatore insocievole , Il cielo sulle città e  Astrid , scritto, quest’ultimo  singolare racconto d’amore ,    in una pensioncina di Milano . Un  idillio  segnato da ombre e sottintesi , da tenera ansietà , da amaro rimpianto , forse autobiografico.  Ma del resto tutte le sue poesie  “ discorsive “ ( odiava questo termine con cui l’avevano bollato alcuni critici)  avevano la matrice della autobiografia, nascevano da situazioni reali, esperienze dirette , come ad esempio “La circolare”.  Mi sembra di rivederlo il vecchio Cardarelli che fa il giro due o tre volte con la vecchia circolare rossa  di una volta e si mangia con gli occhi le  belle ragazze  romane  ( “Era di quelle/  romane bellezze /che son rare anche a Roma , /dove mai non s’incontrano / senza un muto
stupore/ . Era un grande segreto / della vita di Roma/ che m’appariva in luogo meno propizio, / nella forma più degna).

2.     La vita l’ho castigata vivendola

Cardarelli  era stato in giovinezza  un innamorato tempestoso e costantemente deluso  (“ O grande ragazza crucciosa, nei cui occhi fondi si mescolano a profusione tenebre e azzurro!...Se tu sapessi quanto è l’amore che mi fa smaniare la notte nella mia camera come un albero che cerca l’aria!...O angelo nero…vergine ingiusta e dannata… Adesso capisco che tu potresti  essere l’espiazione e il contagio della mia vita”)  per il quale  la donna  era  stato  “mistero  senza fine bello “ attraente, luminoso, adorabile,  ma anche creatura inafferrabile, volubile, sfinge e chimera. Le esperienze amorose  erano state  per lui  sempre  sofferenza e pena , poiché aveva  trovato in agguato «una spaventevole divergenza», che  , inevitabilmente , finisce per ingenerarsi nel rapporto fra i sessi.
Del resto era   un uomo vocato  alla letteratura  e  quindi  alla solitudine  .Polemista mordace , severo, uomo di risentita passione , senza amici , fragile e impassibile , la sua esistenza non poteva che essere difficile , problematica , sofferta, piena di disillusioni e umiliazioni , fino al punto  di   dover quasi  mendicare per vivere  (in una   lettera  del 1946  - quando il  suo nome era ancora  fulgido negli arenghi e nei consessi letterari  ( aveva vinto il premio Bagutta ,  due anni dopo , nel 1948, vincerà lo Strega)  – scrisse al giovane poeta Bigiaretti : “ …Languo e soffro  in una cameretta esposta a tramontana …e tremo , perché non dirlo?, pensando alla morte che s’avvicina…Le mie condizioni non mi permettono di lavorare . Che fare dato che non ho il coraggio di uccidermi? Spero che  (lei)  possa dirmi  una parola rassicurante” ( Bigiaretti  fece la colletta con i letterati del tempo e  gli mandò qualche soldo)  .Ma lui  lo sapeva , fin dall’inizio, dagli esordi ,  che quella vita vagabonda e solitaria che si era scelto , di austera e scontrosa dignità , quella vita da “ enfant de fortune” ( “Sono figlio dei tempi…mi sento come un grillo nell’uragano , come la cicala sorpresa dai primi freddi dell’autunno“) , in cui aveva  tentato  tutti i mestieri(   fattorino ,  commesso di un  negozio di orologi,  giovane di studio presso un avvocato,  sindacalista, impiegato di  cantiere,  e compilatore  (lui che aveva  fatto appena le elemetari!) di tesi universitarie, infine cronista dell’ Avanti!) sarebbe stata “tutta  d a  mortificare e da reprimere in vista dell’opera che  ne dovrà scaturire “, sarebbe stata   “una perpetua attesa e una costante vigilia”. E c’erano giorni in cui quasi si smaterializzava,  teso sul letto, sospeso e quasi  inesistente, oscillava come un ago calamitato  , o si sentiva come un animale ferito , una preda difficile da riavere , un essere malizioso , sempre in pericolo di sospensione e allora se ne usciva con quelle sentenze fulminanti, quelle battute sferzanti per cui andava famoso e spesso erano autoironiche: “ io la vita l’ho castigata vivendola”

3.     Un Socrate moderno ?
No, piuttosto un lirico inquieto pieno di grazia.
Forse – dice qualcuno – avrebbe potuto essere un Socrate moderno , con i suoi apologhi, aforisma, e le sue sentenze morali  mai sottratti al controllo dell’ironia (,“All’innocenza ci sono dovuto arrivare…Mi sono sempre alzato da una disfatta”; non sono vittorioso che in certe fulminee ricapitolazioni; il segreto delle mie conoscenze è l’insoddisfazione” ; le parole, se hanno qualche valore , è solo in virtù dei loro sottintesi”) . I suoi maestri sono stati – e si sente – Leopardi, Baudelaire, Pascal, Nietzsche, è attraverso la loro conoscenza che Cardarelli compì il viaggio dalla passione alla ragione, senza esaltazioni spirituali o retoriche renitenze pedagogiche. La sua meditazione morale non rifiuta la fantasia; il suo naturale slancio epigrammatico, ironico, sentenzioso, è frenato da un eccezionale facoltà di concentrazione espressivo di tipo lirico. Cardarelli riesce  a dare movimento visivo, ritmo musicale , esemplarità pittorica ai ricordi, ai paesaggi, ai sentimenti umani, alla realtà naturale,  alla cronaca autobiografica. Per avere conferma di tutto ciò   basta leggere le sue poesie,  vere e proprie architetture descrittive lineari di parole  umane, temporali, razionali  , semplici  “ in cui si rivela  scrittore  intensamente moderno, maestro di un’inquietudine essenziale e di una liberazione lirica nuova, piena di grazia”. Nel poeta –scrisse Sapegno – si ritrova l’uomo con i suoi umori, le sue ire, le sue avventure.  Ma anche il fascino delle grandi distanze, un fuoco alto e lontano immediatamente reso dalla fermezza dell’arte. Il cuore della sua poesia rimanda in qualche modo alle “ Ricordanze” di Leopardi, “la sua grave opera più  eccitante e tendenziosa” 

4.La Ronda
Oggi , nelle enciclopedie letterarie ,  Vincenzo Cardarelli  è  ricordato  quasi esclusivamente  come “ rondista”  . Fu lui il fondatore de  “La Ronda” , di cui facevano parte Cecchi, Bacchelli, Saffi , Barilli , Baldini e Montani , rivista  nata nel 1919 , che esercitò una certa influenza sui letterati d’epoca , col richiamo alla chiarezza e al rigore formale  della scrittura , in un momento di estrema confusione per le sorti della nostra letteratura. “ E su quella rivista  furono pubblicate le prime prose d’arte di Cardarelli.  Con lui – dirà Giansiro Ferrata - era sorto il modello più puro della  della prosa italiana  contemporanea , in un senso evocativo ricchissimo che risplende di  immagini  tutte urgenti . “ La mia fiducia di creatore sta nei molti e profondi errori  che ho da riparare”) . Ma era anche severo , addirittura intransigente nei suoi giudizi : “ Odio le improvvisazioni, i fuochi di paglia, i libri scritti tutti di seguito  e che si leggono di un fiato. E  talora   scontroso, categorico , non privo di malignità . C’era tutta un’aneddotica  che circolava nei caffè di Roma per riferire le sue sentenze e le sue bruschezze . Ad un giovane critico che gli aveva dedicato un saggio totalmente laudativo e glielo portò trionfante disse: “ Erano meglio i denigratori di una volta”. Ma  quando era in vena  aveva il dono di un’immaginazione densa, un parlare metaforico e per allusioni ( “Di ogni cosa vedo l’ombra in cui culmina“)  , che ti incantava , per il suo spirito   mordente  ( “Il segreto delle mie conoscenze è l’insoddisfazione”)  , ma anche per la sua malinconia calda e disperata ( “Le cornacchie tornano alle torri schiamazzando , con un lungo desiderio di volo).  C’era in lui  , dentro di lui un gabbiano pieno di  abbandoni solitari  , di attese vane , di  destini  segnati: “ Non so dove i gabbiani abbiano il nido, ove trovino pace. Io son come loro, in perpetuo volo. La vita la sfioro com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo. E come forse anch’essi amo la quiete ,la gran quiete marina, ma il mio destino è vivere balenando in burrasca…
Non credeva che la sua vita fosse  un ammasso orrendo di combinazioni ,  un errore  mostruoso della natura  ,come Buzzati, ma neppure credeva  all’arte come  rivelazione di Dio , “e altre bubbole del genere”.  “Io sono un cattivissimo uomo e forse un discreto artista. Ad ogni modo per me l’Arte è tutto , e ciò che voi dite sulle voci del cuore e del sentimento non può aver significato per me se non nell’incorruttibile regno dell’arte, che è fine a se stessa. Credeva nella ”verità”  innanzi tutto. “Noi abbiamo sete di giustizia e di verità. Poco importa i fastidi a cui questa pericolosa voglia ci espone. Siamo fatti in maniera da poter avere col prossimo , e specialmente con i nostri amici, se non rapporti chiari, onesti, leali. Non teniamo conto delle parole, ma delle azioni”.
Fu questo singolare  autodidatta geniale  , che amava il teatro ( scrisse di opere di  Shakespeare  e  Ibsen  sul Tempo  e la Tribuna  ) , e si era immerso nelle “Operette Morali”  di Leopardi, nei “Poemès en prose”  di Baudelaire , nelle  “Illuminations “di Rimbaud , nella lettura golosa di Nietzsche ,  che  aveva maturato  una levigatezza  di stile classico  straordinario  e una  grazia evocativa  rara  ( Volata sei, fuggita/ come una colomba / e ti sei persa là, verso oriente”) ,  che  creò il punto più alto di una nuova forma d’arte ,  mediante una espressione di  scrittura  , un linguaggio   che  conferiva alla prosa le movenze, i sentimenti,  la musicalità, il  ritmo  propri della  stessa poesia ; e fu sempre lui  , per contro ,   a dare  alla poesia  un  linguaggio  discorsivo , “prosastico”, e , al contempo , di incontestabile classicità . “Che la mia poesia  discorra non c’è dubbio. Anzi corre precisamente allo scopo, con un ritmo che non ammette divagazioni, non concede indugi…Il discorrere è privilegio dell’uomo e perciò , in grado superbo, dei poeti di tutti i tempi e di tutte le nazioni…In Dante, Petrarca, Leopardi, ragionare è sinonimo di poetare”

5.L’Etrusco fragile e impassibile 
Eccolo il  Cardarelli  nottambulo  del caffè Aragno  ,  col suo profilo etrusco , di cui si compiaceva ,  col fare sentenzioso e il  dito spesso didascalicamente alzato  all’insù , con la capigliatura folta e l’eloquio che egli espandeva  sui più disparati argomenti ,  pronto  nel motteggiare ,  ironizzare  ,  stupire ,  eccolo l’ insonne animatore e  protagonista  assoluto  della vita letteraria romana,  che  deambula da un caffè all’altro, con pochi compagni intellettuali  (“Chi tiene un poco alla mia compagnia bisogna che si prepari a lasciarsi annullare”)  . Una notte, sul grande sterrato del Corso dove sarà costruita la Galleria Colonna,   vede apparire Gordon Craig  avvolto in un gran mantello nero,  inseguito e preso a schiaffi da Isadora Duncan, li chiama, li placa  e invita entrambi al caffè, a discorrere d’arte e di danza. I due  artisti ritrovano d’incanto l’armonia e il sorriso  davanti ad un bicchiere di whiskey , e fanno sodalizio , discorrono tutta la notte con il poeta, ridono, si divertono , ma  tutto finisce lì. Non divennero  suoi amici.  Del resto Cardarelli non ebbe mai  discepoli , né  duratori amici : “La vera amicizia è rara e difficile , i  tradimenti reciproci sono sempre in agguato”. Il suo – come già  detto -  era un destino dì solitudine: «E’  dunque scritto che io me ne debba star solo...Quanto io sono staccato dagli uomini, nessuno Io vorrà mai credere» …Nascita, dolore, educazione, tutto contribuì a fare di me un uomo amato da pochi, ingiuriato dai più, e compreso veramente da nessuno».
Ma se la solitudine era stata  accettata, in gioventù, sotto la suggestione nicciana, con la fiera consapevolezza di essere un uomo forte, bastante a se stesso, anche se costretto presto ad ammettere i propri cedimenti, le presunzioni tramutatesi in sconfitte («Ho alle spalle il vuoto. Sono pieno di convinzioni contrastate dall'esperienza») , ora , per il vecchio Cardarelli , diventa  una cosa  tristissima e inaccettabile . C’è  soprattutto  la sua paura del tempo, come di uno spettro sempre in agguato, di un pericolo incessante, cui si associa l'idea della morte, «ingiuria suprema
(“Morire , sì, / non essere aggrediti dalla morte/ Morire persuasi/ che un siffatto viaggio sia il migliore./ E in quell’istante essere allegri/ come quando si contano i minuti/ dell’orologio della stazione/ e ognuno vale un secolo” ).
Ora che sente approssimarsi il viaggio  non c’è più a confortarlo  quella sua grazia poetica( “il silenzio a  mezzogiorno si fa marea “) , quella sua profonda capacità di leggerezza, quel piacere letterario fresco d’umanità verso i capitoli più alti e malinconici della musica dei “viaggi” e delle “ memorie” ; forse ricorda ancora  quello scampanio delle reti che i pescatori  liguri  lasciavano  andare alla deriva , quell’annusare l’odore del vento d’autunno sui monti della sua Etruria , gravido di memorie , quei vagabondaggi, quei ricordi  nella spettralità dell’insonnia ; non c’è più  quel suo stile che sembrava  un calco sulla rena ,quel calore cosmico, quell’emozione visiva , quella musica  che è lo sfondo bianco delle sue poesie , che porta ,  immobile , i più vari e delicati colori. Oh,  quella liquida intimità musicale , quel guerriero etrusco che ride nello splendore della terra , che è dentro di lui  , quelle ombre troppo lunghe del nostro breve corpo,  che sono i ricordi , quella suggestione armoniosa di ogni figura  , la melodia immobile , il respiro , l’onda  splendidamente trattenuti all’orlo , e  quelle scoperte e reminiscenze leopardiane  fuse nel sentimento e nel ritmo . Tutto ciò è diventato  “ un povero autunno romano che tempesta con furia senile – e tuona con fragore – e lampeggia con improvvise accensioni di lampadina.
«La vita per me non è stata che una lunga malattia contro la quale ho sempre fortemente e astutamente lottato... Ho sempre vissuto come un convalescente...» «Quante cose cominciate | e rotte, nella mia vita!»Tutto si è concluso – sempre -   con il disinganno, il distacco, gl'inevitabili addii , o con la solitaria fuga.«Oh senza sosta io vissi | ed esule dovunque...E’   rimasto «fuori dalla vita» della gente , dai  segreti delle case». Il malinconico viaggiatore che sta al finestrino del treno, che oltrepassa «città fervide e ridenti  ci  saluta  e guarda se stesso , la sua perenne insoddisfazione, le sue sospensioni,  le  sue cadute, le frantumazioni, la penosa ricerca di nuovi equilibri, l'irraggiungibile interezza («Le mie giornate sono | 'frantumi dì vari universi | che non riescono a combaciare. | La mia fatica è mortale»).
Cerca – impassibile e  fragile –  e trova  , tra le  tante , una parola sola : disperazione . “Dolce infinita profonda parola”. E poi , sul filo  leopardiano, “ Vaga e triste è degli uomini la sorte”. Meglio la morte.  Ma poi , in un soprassalto  quasi giocoso e ineffabile,  il vecchio  profeta armato d’ironia  guarda  l’ultimo  orizzonte , dietro i platani  di Roma , socchiude gli occhi  e dice: “ Per tutta la vita la fortuna mi è corsa appresso senza riuscire ad acciuffarmi”

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