sabato 31 marzo 2012

Don Tonino Bello e la chiesa del grembiule

Don Tonino Bello e la chiesa del grembiule
di Augusto Benemeglio


1 Scopritore di stelle.
Era un poeta, era uno scopritore di stelle. Ma era, soprattutto,  un santo,  e i santi sono  rari, sono persone che  portano sulle spalle anche le nostri croci, ma con gioia, con un amore illimitato, a prova di tutto, i santi sono  i giullari di Dio, come San Francesco d’Assisi,  che portano un soffio di speranza  sulla salvezza dell’uomo, nonostante tutto.
Mi vengono in mente queste parole  di  don Riboldi,  in quel pomeriggio d’aprile di tanti anni fa, a Taviano, città dei fiori,  quando venne il vescovo lombardo, con tanto di scorta (era per antonomasia  il prete-antimafia, che aveva osato accusare dal pulpito la camorra napoletana di tutte  le violenze, il sangue, la ferocia, le stragi, lo strazio infinito, la morte  della speranza, le infamie più immonde, era colui che aveva negato la comunione a  uno di loro, che aveva fatto crociate, processioni per le strade  di Acerra, che aveva bandito, esiliato tutti i collaboratori occulti della mafia, che aveva spronato i pavidi e i timidi a unirsi tutti insieme alla lotta, un prete con la fede e con le palle che aveva osato sfidare la mafia, che aveva – già anni prima – sposato la causa meridionale, per amore, solo per amore.
1.     Speranza salentina
Era venuto a Taviano due o tre anni dopo  la morte di Don Tonino (eravamo nel 1995, o nel 1996), e Lui era venuto nel Salento  per onorarlo, ma anche per portare testimonianza, per dire a chiare note  con la sua voce robusta, tonante, vibrante, che don Tonino era la purezza della vita librata sul mondo, uno di quei doni che il Padre Eeterno elargisce una volta ogni secolo, e che noi spesso non ce ne accorgiamo, non vediamo, non ascoltiamo, rimanendo prigionieri nella sfera angosciosa del nostro nulla (il posto di lavoro, la casa, i soldi in banca, le cose da esibire, la nostra falsa tranquillità, la nostra falsa sicurezza, sempre ben chiusi nel bunker che è il nostro cuore, un lago di indifferenza)
Don Tonino era stato ed era ancora  lì dove si raccolgono tutte le ansie le pene le ingiustizie le umiliazioni, le sconfitte, le macerazioni, le disperazioni, dove tutte le passioni della terra si uniscono per far trionfare la giustizia, la pace, la solidarietà, il bene comune, e diventano carezza di voce, tenerezza, rinascita.
Lui solo,  Tonino da Alessano, era il vero grande cuore, la grande anima, la speranza Salentina, e da lui bisognava iniziare ogni progetto, ogni costruzione affinchè il Salento diventasse davvero quell’ arco di pace  e di solidarietà di cui aveva sempre parlato.  Tonino è  già  santo,  non c‘è bisogno di  alcun processo,di alcuna  causa di beatificazione per  averne conferma. Dai numeri alterni, dalla danza perenne di nascite e morti, da celesti città di sabbia o infernali città di fuoco, da imperio e servitù, da inedia e opulenza, da grazia e venustà, da asprezza e calma, dalle dominazioni  di secoli su una terra che vomita morti, dal profondo Salento, quello del Capo, a poche miglia da Leuca finibus terrae, era nato lui, Tonino Bello, terzo figlio di una famiglia poverissima. Lui era miele di miele, sostanza di sostanza, essenza di essenza, l’amore che aiuta a vivere e a sperare, ma anche un prigioniero nella sfera delle nostre piccolezze, abitudini, indifferenze, grigiore;  era venuto a scuotere, a far crollare le nostre sicurezze, le nostre certezze  con le parole del Vangelo, parole che fanno sempre male per chi non conosce l’umiltà di cuore. Tra fuori e dentro, tra l’altro e noi, tra l’istinto animale  e il collegamento divino, s’infiltrava lui come una passione senza limiti, senza  confini, senza spazi, ed era accettato da giovani, dai poveri, dai diseredati, dai drop out, dagli ultimi, combattuto dagli altri, dai potenti, dai benpensanti, dalle istituzioni, e, talora,  dai suoi stessi confratelli. Lui era l’altrove.

3.Lacrime per il fratello vescovo

Don Tonino Bello, il  fratello vescovo, il profeta della chiesa del grembiule, l’uomo tutto evangelico, le cui spoglie mortali si trovano nel cimitero di Alessano, nella sua piccola patria natìa, in quel recinto della febbre e della polvere dove per mille anni  il nascere  fu spento, e del perire non ci fu traccia; ora c’è lui, Tonino riposa lì,  dove  suo fratello Trifone ha  piantato un ulivo che fa ombra e musica  sulla pietra tombale, e  poi ha costruito un arco di pace, in pietra viva, che guarda a oriente. E tutt’intorno  ha disposto i bianchi gradini, che sanno di eternità silenzio e preghiera; un piccolo sacrario dove molte  persone s’adunano  per un saluto, un’orazione, una meditazione, un lieve bacio  un sospiro nell’orlo della luce, spargendo  profumi di  nostalgiche memorie.A pregare su quella tomba  c’era stato anche lui, Riboldi ed era venuto nudo, come il più nudo dei misteri (via i paramenti, via la scorta, via il seguito religioso e civile, via le voci, i suoni, le immagini, le parole). E stava lì in silenzio  a delirare  coi suoi ricordi, lui e l’amico  insieme sulla croce, o nella sua casa di Milano, insieme a pregare con vibranti parole mute, ma anche a scherzare, a sorridere impacciati davanti al Cardinale Martini; era lì  a risvegliare l’amico verso il profilo della sua reincarnazione, sotto i flutti dell’oscurità della prima alba, a piangere umilmente, sì, ora piangeva e con lacrime che facevano laghi sulla pietra intatta, a mormorare  frasi alla sbiadita luna  come un errante pastore dell’Asia.
2.     Che cosa faranno gli alberi?
Riboldi  aveva poi offerto le proprio testimonianze sulla figura del  vescovo di Molfetta, venerato in tutta la  Puglia come un santo da migliaia e migliaia di persone (perfino dal Governatore  Vendola quando parla di lui s’accende, s’illumina, arde, brilla), che custodiscono come preziose reliquie i suoi ultimi sguardi, le sue ultime parole di  poeta di Dio:
”Che cosa faranno gli alberi stanotte, quando suoneranno a stormo le campane? Come reagirà il mare che brontola sotto la scogliera, all’annuncio della risurrezione?… L’angelo farà fremere le porte dei postriboli? E le montagne danzeranno di  gioia attorno alle convalli?…Non c’è amarezza umana che non si stemperi in sorriso. Non c’è peccato che non trovi redenzione. Non c’è sepolcro la cui pietra non sia provvisoria sulla sua imboccatura. Anche le gramaglie più nere trascolorano negli abiti della gioia. Le rapsodie più tragiche accennano ai primi passi di danza. E gli  ultimi accordi delle cantilene funebri contengono già i motivi festosi dell’ alleluja  pasquale”.
4.Ostinato testimone della gioia
Don Tonino, l’ex pretino direttore del Seminario di Ugento che giocava a pallavolo, mettendosi sempre con la squadra perdente, agitando le bandiere di stracci colorati dei vinti, anziché i lucidi gagliardetti dei dominatori; Don Tonino, l’ex parroco di Tricase che suonava la fisarmonica nelle feste patronali, che giocava al calcio con i ragazzi dell’oratorio, su campi sassosi e impolverati, (era ala destra, il Garrincha con la tonaca), ma con lo sguardo sempre attento agli afflitti, ai poveri, ai diseredati; Tonino, il pretino della porta accanto — uno di noi — che ti parlava con la luce negli occhi e il sorriso aperto disteso buono, ostinato testardo testimone della gioia, che conquistò tutti, giovani vecchi donne bambini tiepidi e bollenti, credenti e non, parroci di campagna e cardinali, perfino il Papa che infatti lo volle fare vescovo a tutti i costi, nonostante lui non ne volesse sapere (per umiltà, ovviamente) e come tale invece conquistò… quasi tutti; tutti tranne i preti (sic!), i “suoi” preti che lo ostacolarono, lo avversarono, lo calunniarono, si mutarono in zelanti delatori, pur di mandarlo via da quella diocesi che gli era stata affidata, ma, intendiamoci, probabilmente sarebbe stata la stessa cosa  in altre diocesi, perché il pretino di Alessano era un uomo che pretendeva di applicare il vangelo alla lettera (date da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, una casa agli sfrattati, visitate gli infermi, i carcerati, ecc.) .
5.Il grido dei poveri
Avrebbe comunque trovato ostacoli sul suo cammino, perché la Chiesa non sempre manifestava, come lui, la “grande passione per l’uomo”, anzi spesso s’attardava all’interno delle sue tende, dove non giungeva il grido dei poveri, o si manteneva prudenzialmente al coperto, andando a braccetto con i primi piuttosto che gli ultimi, sedotta dalle sirene della politica o dalle manovre di accaparramento dei potenti. La Chiesa anziché mettersi in cammino, cercava una buona sistemazione, si trincerava dietro le sue apparenti sicurezze e non aveva il coraggio del pretino di Alessano, di uscire dai propri accampamenti, di schierarsi apertamente con gli ultimi i deboli i calpestati i diseredati i sofferenti i malati i morti di fame i ladri le prostitute, gli ubriaconi, i tossici, come palesemente faceva don Tonino.
La Chiesa era spesso pavidamente neutrale, o addirittura sorda e indifferente di fronte alle ingiustizie e a chi le compie. Gli unici che continuarono ad apprezzarlo, ad ammirarlo, ad amarlo incondizionatamente furono i preti impegnati, sensibili, intelligenti e coraggiosi come  lui, in specie Turoldo ( un poeta) e Riboldi ( un vero e proprio guerriero di Cristo), preti disposti a tutto pur di difendere i deboli, i poveri, gli ultimi, – tutta quella fiumana di gente che era stata conquistata da Tonino, dai suoi occhi buoni chiari trasparenti, dal suo volto luminoso sempre proteso verso l’interlocutore, dalla sue parole di rara chiarezza bellezza e semplicità che rivelavano la presenza di un uomo eccezionale, di un profeta, di un santo.

6.Non fate che la mia opera ricada su se medesima.
E’ tutto questo lo disse a chiare note l’allora vescovo di Acerra, alto, bello, vigoroso, una figura carismatica, un templare con la croce sul petto anziché la spada, che parlò senza ambiguità, senza mezza misure, con estrema semplicità, oserei dire con simpatia bonaria, ma anche con quella volontà, determinazione, energia e fermezza di carattere che hanno i veri pastori d’anime, i preti fieri di riscoprirsi coscienza critica delle strutture di peccato che schiacciano gli indifesi, i deboli, i poveri del mondo.
Era uno spettacolo, un lenimento dell’animo sentirlo parlare, ed io ero lì, come moltissimi altri venuti da tutte le parti del Salento, a bearmi delle parole di quest’uomo grande e straordinario (avevo fatto un po’ da staffetta al vescovo di Acerra, intrattenendo i convenuti con i miei “Dialoghi con don Tonino” e poi avrei scritto, un anno dopo, un recital dal titolo emblematico: “Aspettando don Tonino”), e ogni tanto scrutavo la porta d’ingresso dell’Auditorium, dove c’era la scorta armata, gente in divisa che rischia la pelle ad ogni momento, né più ne meno come lui — il vescovo antimafia — per milleduecento euro al mese.
Riboldi era venuto a ricordare l’amico Tonino, a raccontare aneddoti, deliziosi, divertenti, illuminanti sulla figura del pretino di Alessano. Una volta si trovarono entrambi a Milano e non avevano di che vestirsi per andare a far visita all’arcivescovo Martini e Riboldi rimediò, nella sua casa milanese, qualcosa di simile ad un abito talare, ma non era sufficiente, alla fine sembravano più due comparse di Cinecittà che due vescovi. Ma il cardinale Martini era uomo di spirito e capì.
Era venuto qui – questo grande vescovo lombardo, che decise tanti anni fa di sposare la causa meridionale per amore, solo per amore, nient’altro che per amore — per dirci che Tonino era uno scopritore di stelle, uno che sapeva vederle anche quando il cielo è nuvoloso, oppure non brillano perché nascoste, riusciva a scoprirle nei luoghi più impensati, là dove nessuno di noi le potrà mai trovarle; uno che sapeva scoprire stelle anche sulla terra, in mezzo al fango, tra gli ubriaconi, le prostitute, i ladri e i malfattori, i drogati, i carcerati.Ma Don Riboldi era venuto anche a scuoterci, a dirci che non dobbiamo rimanere inchiodati fatalmente, come è stato per secoli e secoli, alla croce e subire soprusi, ingiustizie, violenze e ogni altra ignominia; era venuto a dirci che è ora anche per noi di togliere i chiodi, perché non sono più necessari, non dobbiamo aver paura di come toglierli questi chiodi, basta fare il primo passo. Ma non aspettiamo che qualcuno venga a toglierli, quello è l’errore esiziale. I chiodi dobbiamo toglierceli da soli. Lui era venuto a dimostrare che si possono levare quei chiodi di ignoranza, paura, omertà, però noi dobbiamo schiodarci da soli. Ecco, tutto ciò era venuto a ricordarci Mons. Antonio Riboldi, con la sua aitante presenza:
Io dico il Padre Nostro e dicendo il Padre Nostro voglio dire tutta la mia libertà. Ditelo con me, se ne avete coraggio.
Tonino lo gridava il Padre Nostro e si commuoveva ed era ebbro di libertà. Lui ne aveva, e di grande, immenso, infinito, di coraggio. Era uno di voi, popolo di formiche, gente umile laboriosa e fiera, ed è ancora in mezzo a voi, sta qui dove il dolore per secoli e secoli è stato una lunga nottata che non passava mai, una stagione delle piogge senza fine e scorreva, continuamente, senza interruzione, come oggi scorre in tutte le popolazioni del terzo quarto o quinto mondo, sta qui per ascoltare le vostre richieste, sorreggere la vostra fede che vacilla. Io sono venuto nel mondo con la mia anima nuda a portare lo spirito e il fuoco, per volontà di Dio.Non fate che la mia opera ricada su me medesima  e diventi vaniloquio, o polvere che il vento disperde.

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