venerdì 1 giugno 2012

Venti di grecale

                                               VENTI DI GRECALE DI PAOLO LABOMBARDA

“Venti di grecale- Peschici anni ’40” , edizioni  Il Filo – Albatros , 2009,  di Paolo Labombarda  è  un romanzo scritto con molto sacrificio e sofferenza, come sempre accade quando si va a rovistare nel proprio passato e si vuole raccontare  - senza alcun compiacimento - , con autenticità , con tormento , a volte , la storia di una fede  ai propri valori, la casa, la prima terra , il mistero delle radici, la famiglia, gli affetti, i giochi, i sogni, il sentimento di un arcano e pure preciso linguaggio da recuperare.
E allora capita , non senza stupore, che  il dialogo diventi sempre più stretto , man mano che il tempo passa, tra l’antico bambino che eravamo  ( “se non diventerete bambini non entrerete nel regno dei cieli”)  e i  morti – quei ministri velati, onnipresenti, della memoria – che spesso ci vengono a trovare. Diciamolo pure , oggi come oggi ci vuole  coraggio a parlar di fede , a parlar di sentimenti , e Labombarda  lo ha avuto scrivendo questo libro.  Che è un viaggio nel passato, pieno di incontri, pieno di rischi, pieno di sorprese , trasalimenti, dubbi, incertezze , sgomenti ,  compiuto da un ingegnere elettronico e professore universitario  pugliese   di talento , alla soglia dei settant’anni  . Ed è  grazie a questo viaggio che l’autore   fa rivivere tutto un mondo di paesaggi e personaggi straordinari ormai scomparsi da anni. Si tratta , infatti ,  di un  racconto corale , se vogliamo di un’ epopea tutta pugliese ( garganica)  degli umili che  richiama , inevitabilmente , alla memoria  Verga e i nostri grandi veristi , che si riferisce a 70 anni fa, una storia  scritta  in forma quasi diaristica  che coinvolge il lettore dalla prima all’ultima pagina. In questo  viaggio a ritroso nella memoria , tenace e magica , dell’infanzia , della  Peschici-Itaca –Acitrezza  degli anni ’40,  piccola città-mondo  chiusa  su se stessa ,  attraversata dai venti della guerra , oltrechè dalle brezze  , o mareggiate di grecale ,  Labombarda dimostra di avere un suo proprio stile  di scrittura , geometrico , rigoroso, analitico , con un linguaggio preciso, essenziale , asciutto ,  -  intessuto di frequenti  ma brevi espressioni dialettali , che imprimono accelerazioni, danno vivezza, dinamismo, colore al tessuto narrativo.

“Venti di Grecale” non ha avuto sicuramente una gestazione facile , né rapida , si tratta di quelle opere lungamente meditate , studiate a fondo, ripensate mille volte, rivedute e corrette, limate fino allo scrupolo di un accento, una lineetta , un puntino sospensivo, eppure a leggerla ci si mette niente, un paio di sere senza televisione ed è fatta. Si tratta di  un’opera  semplice e complessa, lineare e labirintica,  un po’ come tutte le cose della vita , che rievoca la storia della sua famiglia, del suo paese, nel periodo più doloroso e sofferto della storia italiana. Possiamo dire che  questo romanzo   riguarda un po’ tutti noi, non solo come pugliesi di nascita o d’elezione, o pugliesi per parentela  acquisita , o per dono d’amicizia, ma anche come italiani, come esseri umani che si nutrono – oggi come allora – di sentimenti ed emozioni che non hanno tempo né fine. Per scrivere questo libro autobiografico , pieno di incontri , palpiti , memorie  anche dolorose , l’autore si è dovuto  dispogliare , denudare di tutte le sue armature mentali , psicologiche, sociali ecc.,  e andarsene a meditare , e a dialogare con le ombre ,ovvero  i tanti personaggi che ormai stanno nel “mondo delle stelle” ( vds. ultimo capitolo) , un dialogo che si svolge fitto fitto in un  giardino misterioso dove si è nudi senza saperlo.
E’  un viaggio, quello di Labombarda, e non solo metaforico. Infatti  troviamo, fin dai primi righi, dall’incipit , il piccolo infante Paolo ( l’autore)  nella stazione di San Severo, insieme  alla madre Bianca e al nonno , Paolo. Vi sono giunti da Roma  dopo oltre dodici ore di viaggio. E il 18 giugno 1940, e da soli otto giorni Mussolini ha letto la dichiarazione di guerra.  Gino, padre di Paolo è dovuto partire per l’Africa, e  Bianca ha deciso di andare a stare con la famiglia , benestante, del marito , che sta a  Peschici, una sorta di Macondo garganica povera  e maleodorante , non c’è l’acqua , non c’è  energia elettrica ,  “e le strutture igieniche  sono , a dir poco, approssimative…Mi sembra di essere ripiombata nel medioevo “, dirà Bianca, la narratrice.  E tuttavia Peschici è  un quadro vivo e luminoso  nel cuore dell’autore , è il puro miele della luce, il bagliore dei ricordi e voci lontane , voci assorte nell’aria che ora si fa  lucida come ghiaccio ,  un ordito di fili dentro lo spazio scintillante , uno spazio assoluto che sembra  possibile percorrere . Nella presentazione  , Paolo  Labombarda dice  che oggi  tutto è cambiato , “nei principi , negli stili di vita , nel linguaggio, nelle architetture del territorio “ (vds. pag. 11) . In effetti  oggi noi possiamo solo enumerare le nostre perdite,  la perdita  di tutti i valori tradizionali , una volta considerati  sacri;  la patria, la religione, la solidarietà, la famiglia, soprattutto la famiglia. Siamo in un’epoca della civiltà della perdita , o della liquidazione, se non vogliamo chiamarla civiltà della “sopravvivenza”, dove si aspetta sempre che qualche “isolano della mente”  come l’autore   sopravviva ancora , e ancora riesca a stendere questi atlanti di continenti inabissati, rievocare anche un po’ di clima e paesaggi leopardiani, come nella “terrazza” ( vds. pag. 49) , dove troviamo Bianca e sua  cognata Pola , un po’ la memoria storica delle casa. 
Il libro , come è stato accennato, è ricchissimo di personaggi , a partire da don Paolo, nonno di  Paolo , e suocero di Bianca, che è l’indiscusso Patriarca della famiglia , che governa più che la  casa , - regno-grotta-caverna uterina appartenente alle donne -  le terre, il vigneto, l’oliveto,  una piccola flottiglia di pescherecci, insomma don Paolo è uno dei ras del piccolo centro garganico,   ma è molto umano e con uno  spiccato senso della giustizia;  poi c’è  zio Raffaele, l’erudito professore  che insegna presso le scuole superiori di Napoli ,che è lo storico dellla cittadina ;  Mammà Mariuccia , la seconda moglie di don Paolo ,  quella che tiene le chiavi di tutte le porte e le scansie della casa, dinamicissima , tirannica ed efficiente , che con disinvoltura è passata  dal
convento , dove si accingeva a prendere i voti, all’ammazzatoio dei maiali;  poi c’è Angela ( la mancata suora, sacrificata per far da mammina ai fratelli e sorelle più piccoli) , ed  Ettore , il più piccolo dei figli di don Paolo , il poeta della famiglia , che vive un amor panico nei confronti della natura e del creato , e forse per questo verrà punito dal geloso Iddio, come direbbe Cardarelli. E poi ci  sono i personaggi pubblici del paese , la Vinduccia, la levatrice del paese, Biasino Fisichella, il medico condotto, che serve a poco, poiché si crede ancora piuttosto alla medicina della nonna , tra erbe , ritualità e stregonerie;   c’è naturalmente il parroco, don Michele, a metà strada da il curato d’Ars, per la sua estrema trasandatezza  e fervore mistico, e  un barbone da strada ,  che  ha in uggia qualsiasi forma di igiene e pulizia . C’è naturalmente il Podestà che discute con don Paolo , il medico condotto, il farmacista ,  il brigadiere , e qualche altro notabile del paese , dell’andamento della guerra, sulla situazione politica, sul fascismo e le sue nefaste conseguenze.  Ci sono  , sullo sfondo , i pescatori,  i contadini, e anche i pastori , che scendono dalle montagne del vicino Abruzzo. E poi i paesaggi , la marina, monte Pucci , la spiaggetta, il molo e l’isolotto del Monaco  e il  vento di  grecale , il vento foscoliano che nasce, infatti,  dall'isola di Zante, punto di riferimento della rosa dei venti, e  soffia da nord-est in corrispondenza, appunto, della Grecia. E’ un vento che può diventare  qualche volta sanguinario ... E poi ci sono tutti i riti del  mondo contadino di quel tempo , a cui nessuno si può sottrarre , e il ciclo delle stagioni,  la semina , la mietitura, la raccolta delle olive, la vendemmia ,  e poi  eventi luttuosi e lieti , che appartengono a tutti , poiché “nessun uomo è un’isola “ , la morte ,   il matrimonio , il parto,  la nascita.  Labombarda li descrive tutti , dettagliatamente  e si rende conto che scrivere è per certi versi uno sgravarsi , un vero  e proprio parte . Bisogna richiamare tutta la nostra parte femminile per poter veramente creare qualcosa di valido; lui questo romanzo lo ha scritto  molte volte col pensiero, prima di porre mano alla scrittura .La memoria talora vi avrà insistito  sino al tormento , come intorno ad un’estasi geometrica, e c’era  forse pure la pervicacia , angelica e crudele , del sogno ricorrente  che gli diceva  che doveva  entrare in quel mondo, in quello spazio  magico ,-  promontori rocciosi ,insenature sabbiose, oliveti, case bianche , panni stesi, mazzi di origani e grida di bambini , -  doveva  entrare in quella casa asimmetrica  dalle architetture fantasiose,  riascoltare  quella musica inafferrabile , piena di  voci  corali  , di parole in dialetto peschiciano ,la lingua della sua infanzia , una lingua che sembra perfetta , che lui ricorda benissimo , ma ecco che nell’attimo stesso di scriverla la storia si cancellava…E’ sicuramente l’amore  per  i suoi  cari estinti che muove Paolo alla scrittura . Ma ha molti dubbi. Come faccio a scrivere un romanzo, se perfino Manzoni tremò all’idea.  Intanto  devo cercare uno stile di scrittura. Ma lo stile che cos’è? Lo stile è l’uomo, ha detto qualcuno. D’accordo, ma che significa? Cultura, naturale , o mentale,   e un accresciuto sentimento di vita , fantasia , ma anche  rigore geometrico ,  parlare con sé stesso, ma anche con le proprie ombre, con i morti.  Parlare con la madre che vive nel regno della mistero e della danza sacra che  sanno fare solo le ombre, con Bianca che sta nelle stelle , o sotto l’olivo millenario di Peschici..  Il libro , alla fine ,  diventa  un dono prezioso , una sorta di eredità  gelosa che   Labombarda – lo dice  in prefazione -  lascia ai  suoi figli, ai suoi nipoti,  ai giovani di oggi  che non possono avere nessuna idea di quel mondo.
Il romanzo in fondo è molto simile ad una fiaba , in certi casi addirittura meno cruento e orrido  della fiaba , se pensiamo a mostri, draghi ,streghe, gnomi, botole, tranelli, prigioni sorvegliate da  bestiacce immonde, ecc. ,La differenza è che il romanzo non si chiude  necessariamente con un lieto fine. Se ci pensate il percorso della fiaba è un cerchio, un ellisse, non è mai rettilineo , ma labirintico, ed è lo stesso percorso di “Venti di Grecale”  che si chiude da dove iniziato, col viaggio di ritrono a Roma .Gino è tornato finalmente dalla prigionia in India , la famiglia si riunisce e torna a vivere nella stessa città, nella stessa casa da dove si erano separati, da dove era iniziato il viaggio , il  cerchio si chiude.Come tutte le cose che richiedono un viaggio nella memoria più lontana  , bere con voluttà e tremore alla fontana della memoria , bere quell’acqua fulgida ma anche cupa da cui ha vita la percezione sottile delle cose , non è una cosa da tutti . Immagino il suo sforzo di vincere lo spazio , lo sgomento del viaggio inimmaginabile che sta  tra lui e quel bambino in fasce di soli tre mesi che parte da Roma verso l’ignoto ; quel bambino è lui stesso in attesa del suo futuro . Quel viaggio è in realtà verso il centro immobile della sua vita , dove infanzia e morte, allacciate, si confidano il loro reciproco segreto, è un viaggio verso le stelle, come conferma lui stesso nell’ultimo chiarificatore capitolo del suo romanzo ( vds. pag.275)  che sembrerebbe un inutile appendice, dal momento che la storia del viaggio si è conclusa ,come un anello, allo stesso punto in cui è cominciata . Invece è importante , è un’altra chiave di lettura , in senso metafisico , della storia . Prima del commiato finale bisognerebbe fare almeno il giro intorno alla nostra prigione ( al nostro io , ma anche alle nostre memorie ) come suggerisce la grande scrittrice Margherite Yourcenar;  forse lo scrivere – dice Piovene – è uno strumento che serve a conoscersi un po’ di più , serve a farsi un supplemento d’anima.  . “Venti di grecale “è  un libro-storia di usi-costumi-tradizioni  paesane , ma rifugge il folklorismo e  il   facile sentimentalismo ,  e  a chi è dotato di attenzione poetica  non  sfuggono le frequenti  accensioni liriche. E’ fatto di  tanti personaggi vivi, sanguigni, ricchi di umanità,  ma  quello di Bianca,   la narratrice, lo  spirito guida della storia  rimane davvero indimenticabile. Bianca  , tutta sollecitudine , sorrisi  e pietà ,  nonostante sia la prima vittima smarrita della guerra , costretta a spostarsi da Roma a Peschici ; Bianca , “la forestiera” di Alberona ( paese collinoso del foggiano) , la “tappetta”,  è colei che vede le cose con occhi consapevoli , con occhi eroici , e  agisce con  determinazione e grande coraggio  morale . E’ lei  che   realizza il tempo perfetto delle cose , ridisegna la geometria dei luoghi , scandisce il  nuovo  ritmo dei tempi , e delle stagioni, partecipa a tutti  i riti  del paese  ( dal pane fatto in casa all’uccisione del  maiale )  , le liturgie , le cerimonie, senza mai sottrarsi , anche quando magari vorrebbe farlo. E’ lei  che trasmette al figlio Paolo quella viva fiamma, quell’eleganza naturale della mente, quel senso dell’ordine e della precisione  , quel sentimento di solidarietà con la gente , quel dialogare ora lento ora serrato rubato  al segreto delle stelle. Bianca , o Biancù , è colei che riesce ad aprire nel mondo brutale e cieco della guerra , del lutto , della devastazione e della separazione , i mille punti di fuga  verso il regno della bellezza e della speranza. È lei che raddrizza le cose  storte  che trova lungo i sentieri della vita , è lei che rimette in piedi i ceppi  caduti , è lei che sa  sempre , prodigiosamente , come prendere e lasciare  le cose.

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