COME LE MOSCHE
DI FLAVIO CARNEVALE
Zona di confine tra Zambia e Malawi
C’e’ qualcosa di familiare qui,
questo è certo.
Ricordi lontani che sanno di
polvere e spezie, scritti in qualche angolo delle mie eliche accanto al sapore
di sambussa, al ritmo dei tamburi, alla paura del fuoco e del leone.
Fiero di questa mia diversità dal
maschio medio europeo mi ero anche abituato ai pullman africani a lunga
percorrenza, siluri strapieni che sfrecciano a 160 chilometri orari lungo
strade senza protezioni. Ero abituato alla scomodità, agli stop sotto il sole,
ai venditori nelle soste, ai predicatori urlanti, ai mendicanti, al pianto
ininterrotto dei bambini, alla puzza di pulcini caricati dai passeggeri mista a
sudore, mais, cipolla, alici, carne cruda frollata al sole, uova sode, merda e
banane.
Non ero pronto però ad un taxi
abusivo di frontiera, che porta da Chipata in Zambia al confine col Malawi.
Salgo e a fatica trattengo la
borsa dicendogli che contiene un oggetto fragile e la terrò sulle gambe. 20
mila kwacha a testa, contrattati partendo da 80. Sale il secondo, poi una
signora enorme e la sua amica. Tutti e quattro dietro, schiacciati
come sardine nella loro bara di latta.
Accanto al guidatore un uomo
sulla cinquantina, di ritorno in Malawi. Il driver accende il motore e grida
qualcosa ad un omone con la maglia del south africa football, che prende ed
entra davanti con i due.
Sette, con borse e valigie.
Viaggiamo sul semiasse, ad ogni buca salgono fitte alla schiena già provata da
migliaia di chilometri percorsi in jeep e bus.
Attraversa la strada e si ferma,
scende, prende una manciata di soldi da un tizio che si mette alla guida al
posto suo.
Un sasso che rimbalza su un
torrente di asfalto: è iniziata la folle corsa.
Gli altri 6 sconosciuti non sono
preoccupati della velocità, dello slittamento in curva, dei freni che non
reggono. Discutono vivacemente delle prossime elezioni, dei partiti di
opposizione, di soprusi, brogli, corruzione, malgoverno.
In un’altra situazione sorriderei
a queste dichiarazioni di uguaglianza sentendomi amaramente più vicino a casa,
ma devo preparare il respiro alla prossima curva ed al prossimo sorpasso.
Nel mezzo di un rettilineo il
driver tira con forza i freni ed il suono ruvido del ferro sui dischi mi fa
distogliere lo sguardo dal parabrezza. C’è una buca enorme che dobbiamo
aggirare, attraverso l’adesivo nero lacero del mio finestrino che malamente mi
nasconde dai controlli della polizia osservo due telai di automobili,
perfettamente ripuliti come ossa
al passaggio di sciacalli con le chiavi inglesi.
Mi chiedo quale sia stato il
destino dei passeggeri, senza ospedali, antibiotici o antidolorifici.
Oltre il confine la popolazione
locale li avrebbe spogliati e derubati mentre supplicavano aiuto.
Una decina di minuti ancora ed
inizio a vedere la colonna dei tir fermi in attesa del visto in uscita.
Provengono dalle miniere, con il
rame caricato in piastre quadre e sorvegliato con le armi o quello estratto in
pesanti blocchi e lasciato scoperto ed incustodito perché difficile da rubare.
Ci sono poi carichi con rame in
blocchi misteriosamente coperto da teli, che affrontano la frontiera con
un’autorizzazione in busta chiusa passata sotto i normali documenti di
trasporto, una manciata di dollari per strappare via da questa terra metalli
ancora più preziosi.
Superiamo la colonna e ci
fermiamo davanti alla frontiera, apro lo sportello e quattro braccia mi
bloccano sul sedile agitandomi in faccia mazzi di kwacha malawiani.
Change! Change!
Non devo cambiare, mi verranno a prendere oltre il confine. Non devo
cambiare.
Non mi danno ascolto.
Apro a fatica lo sportello contro
quattro uomini: occhi rossi, pupille lucide, basterebbe la loro puzza di birra
qui per ubriacarsi, digiuni e sotto il sole. Continuano a starmi addosso, mi
frenano, ad ogni passo li stacco di qualche centimetro ma ritornano,
come le mosche sugli occhi dei
neonati.
Mi fermo, allargo le braccia e li
spingo via. Sono offesi ora, agitano le mani, mi gridano contro nel loro
inglese impastato. Arriva un quinto uomo e veste i panni del mio salvatore, mi
affianca, mi cinge il collo con un braccio e grida loro di lasciarmi stare,
guidandomi verso l’ingresso degli uffici di frontiera.
Ora è lui a controllare il mio
passo, mi frena, mi chiede.
Dall’Europa? Io voglio venire con te, amico, tu mi devi aiutare. Io ho
aiutato te, ora mi devi dire: cosa fai tu per me? Come devo fare per venire in
Italia?
La stretta al collo è forte, sono
stanco del viaggio e di queste violazioni, stanco di stare attento a tutto.
Prendi un aereo.
Allenta la presa un attimo e mi
libero allungando i passi verso gli uffici. Varco il suo limite d’azione perché
smette di seguirmi per non oltrepassare una linea invisibile, urlando una lunga
serie di imprecazioni in Bemba intercalate dalla parola musungu, uomo pallido.
Passaporto, libretto
vaccinazioni. Modulo d’uscita, modulo d’ingresso. Il bagno è fuori, devi farla
in un solco nel cemento che termina in una buca maleodorante.
Quattro uomini seduti all’ombra
di un telo arrostiscono carne. Il braciere è un fusto di metallo tagliato a
metà e la griglia è il radiatore preso da un vecchio frigorifero. Il profumo di
barbecue mi toglie la nausea e mi chiedo se i ratti arrostiti sono così
invitanti. Il vento mi sputa una manciata di terra rossa negli occhi. Un
sacchetto di plastica sfondato vola come una manica a vento impazzita.
Non c’è nessuno ad aspettarmi.
Traffico e disordini nella capitale, dovrò raggiungerla coi mezzi locali.
Dovevo cambiare i soldi.
Speriamo di trovare un taxi che
mi porti alla fermata del pullman…
IL CIMITERO DELLE TERMITI.
Ci vogliono 20 ore per
raggiungere Lufubu a bordo di un tir, partendo da Lusaka e percorrendo un migliaio
di chilometri verso nord-est, fino a trovarsi separati dal Congo solamente
dall’omonimo fiume.
Ancora mi stupisco di quanto sia
buia l’intera nazione, alle 5 del mattino le uniche luci nella capitale restano
quelle dei veicoli che soffiano avanti le tenebre illuminando una popolazione
notturna che si muove agilmente nell’oscurità.
I bambini ancora dormono con le
loro madri ma tra due ore, come cacciatori di tesori, rovisteranno alla ricerca
di buste, bottiglie di plastica, borchie di auto e tutto quello che potrà
essere riciclato.
Il ragazzo e l’uomo cieco
torneranno a mendicare al semaforo vicino Barclays e i venditori si
prepareranno all’arrivo del traffico rifornendo i loro espositori con ricariche
telefoniche, lettori mp3 da auto, soft drink ghiacciati, stura lavandini,
accendini, cibo, profumi per abitacolo.
L’odore della notte è soffocato
da quello acre dei cumuli di rifiuti appena bruciati e dai bus locali che
vomitano fumi densi e neri.
Il cimitero di Lusaka, privo di
cinte murarie, giace impotente nella città esposto ai furti di cadaveri operati
dai fanatici della magia nera ed al saccheggio dei ladri di bare e di vestiti.
Duecento chilometri più a Nord,
nel compound di Kabwe, Patrick accende una candela e controlla la sorella. La
febbre sta scendendo, anche questa volta la malaria se ne andrà. Esce
dall’angusta stanza e attraversa quella dove dorme la sorella maggiore col
marito ed il figlio nato otto mesi fa, protetto da un vestitino logoro
ma pulito.
Rosa.
In un passo raggiunge la stanza
adibita a pollaio e controlla il proprio operato: i 200 pulcini crescono sani,
dovrebbe andare tutto bene. Sembrano lontani i momenti in cui, alla morte del
padre, gli zii erano arrivati ad esercitare i diritti della tradizione locale
portando via tutto e lasciando solo quattro mura spoglie: si è dato da fare ed
oggi possiede due divani, un tappeto ed un televisore. Andrà tutto bene, si
ripete e con una brocca prende acqua torbida dal secchio, ne beve un po’ e poi
la dà ai pulcini.
Nella savana i contadini si
incamminano verso i piccoli campi liberati e nutriti dal fuoco, mentre i
cacciatori escono a controllare le trappole per topi. Qui si mangia tutto
quello che cammina, nuota o vola. I grandi animali africani sono ormai un
ricordo, mentre i gatti vengono cacciati in quanto antagonisti nel mangiare
topi e cavallette.
A Nord, lungo il fiume Luapula e
le sue paludi si va a pesca con le piccole imbarcazioni di legno per poi
vendere in strada pesce fresco o essiccato al sole. I metodi tradizionali di pesca
in alcuni casi sono stati sostituiti da tecniche più redditizie come la pesca
con la dinamite rubata in miniera, la pesca con avvelenamento delle pozze
d’acqua o quella con le zanzariere per la malaria regalate dall”ONU ed usate
come reti.
L’alba assume un fascino unico
soprattutto perché gli occhi durante la notte diventano assetati di luce.
Osservo la savana riprendersi i colori e mi chiedo se stanotte i predoni hanno
mietuto vittime. Ti rubano il veicolo e se sei fortunato ti legano nudo ad un albero,
altrimenti ti sparano ad un ginocchio o ti fanno fuori direttamente così non
chiami la polizia. Ma ormai è giorno…
Lungo queste strade nel nulla
bambini di 5 anni vengono lasciati soli a vendere sacchi di carbone. Le donne
espongono frutta, miele ed olio di palma chiusi in bottiglie di Pepsi e Fanta
riciclate.
Bevo una coca, butto dal
finestrino la bottiglia e attraverso lo specchio vedo bambini lottare per
accaparrarsela.
Le frittelle fatte in casa sono
chiuse in scatole trasparenti poggiate in terra e per un paio di euro ne puoi
avere cinque, da portare via in un sacchetto di plastica preso chissà dove.
I muratori controllano la cottura
dei mattoni stampati il giorno prima e lasciati sul fuoco in cumuli simili a
piramidi atzeche cave.
Passano le ore ed il paesaggio
resta invariato, foreste secche con case di mattoni sparse, persone a piedi o
su biciclette sovraccariche che ne percorrono il ciglio e si spostano al suono
dei clacson, autostoppisti e venditori di gasolio comprato ai camionisti compiacenti
che ne rubano qualche litro dai mezzi a loro affidati.
All’incrocio di queste poche e
lunghe strade di collegamento si trovano locande e mercatini adagiati nella
polvere, carpentieri, fabbri e meccanici. Poi di nuovo paesaggi di terra rossa
e piante fino al pomeriggio, dove tutto inizia a cambiare.
Raggiungiamo una zona piatta e
vastissima, regno indisturbato delle termiti. L’ammirazione per un essere in
grado di costruire case più alte di quelle degli uomini diventa ora un
religioso rispetto. Piccole lapidi di terra ricoprono un’area circondata
dall’orizzonte e l’occhio si perde in questa miriade di stalagmiti a cielo
aperto che resistono al vento ed al totale allagamento del periodo delle
pioggie.
Superiamo questo paesaggio lunare
attraversando una palude folta di vegetazione su di un ponte lungo 3 chilometri
costruito dai cinesi più di venti anni fa. Poi di nuovo alberi, pian piano
inghiottiti dalla notte. Raggiungiamo Mansa e attraversiamo una strada sterrata
per fermarci a riposare un po’. Un anno fa, proprio in questo punto, due uomini
che correvano sono stati scambiati per quei cultori della magia nera che
rapiscono i bambini. Queste stesse persone che ora compaiono davanti ai nostri
fari chiedendoci col sorriso di comprare qualcosa li hanno fermati, picchiati e
bruciati vivi. Mi chiudo dentro e inizio a contare i minuti all’arrivo: 300.
Usciamo finalmente da Mansa verso
Lufubu, lungo una strada asfaltata ma piena di buche, mentre un’auto accosta,
ci fa sorpassare ed inizia a seguirci nel buio.
Saranno loro? Mi legheranno?
Quanto farà male un proiettile nel ginocchio?
Le quattro ore più lunghe della
mia vita, fortunatamente senza problemi.
Lufubu. Siamo arrivati.
LA VALLE DEI CIECHI
Ci sono dei momenti in cui, lontano
dai sentieri battuti nella savana, l’unico suono che riesci a sentire è il tuo
respiro e lo scricchiolio della terra sotto ai piedi.
Il sollievo per aver allontanato i
tafani lascia il posto alla paurosa consapevolezza delle distanze e della
solitudine. Dieci minuti dallo sciame di insetti, un’ ora dal villaggio,
ventiquattro da un ospedale e molti ormai dal mondo come l’ho sempre
conosciuto.
Alla ricerca di un suono familiare
ripeto a mente qualche canzone ma scopro ogni volta di non ricordare le parole.
E allora scatto fotografie, meccanicamente, confuso ed assetato nella terra
rossa del mamba nero, della malaria cerebrale, della fame che uccide o rende
ciechi, dove si beve il fango e le vedove per poter mangiare sposano un nuovo
padrone e abbandonano i figli per strada rendendoli orfani per la seconda
volta.
Dove le distese in fiamme nel buio si
vestono di magia quando superstizione, stregoneria ed omicidi rituali non sono
solo fantasie da racconti notturni. E gli spari nella notte non significano che
è capodanno, la vita vale una manciata di dollari e se un'auto ti insegue metti
la sim nel telefono piccolo pensando di nascondertelo dentro per poter chiamare
aiuto quando ti avranno massacrato.
Ma al contempo un luogo che come
un innesto ti infila le radici, cresce, ti trasforma. E diventa te. Dove puoi
incontrare persone amichevoli che ti accompagnano per strada e poi ti salutano
come vecchi amici a cui stai dicendo addio. E poi bambini, che si bloccano a
guardarti e poi corrono a chiamare gli altri, fissi ad osservare intimoriti
l'alieno finché uno non si fa avanti e ti sorride e parla. Ed allora tutti
seguono l'esempio e ti sono addosso, ti tirano, giocano, posano per le foto,
sorridono e non ti chiedono altro se non di restare.
E non te ne andresti mai.
Un sottile strato di nubi inizia a
filtrare il sole attenuando un pò la sete ed i colori di questo mondo. Fa meno
caldo ora e il cobra sputatore uscirà per cacciare. Recupero punti di
riferimento qua e là, un albero caduto, un termitaio, un cespuglio e mi
incammino verso il villaggio.
E se mi perdessi ancora, come la scorsa notte quando ho sbagliato direzione?
E se mi perdessi ancora, come la scorsa notte quando ho sbagliato direzione?
Gent.mo, grazie di aver pubblicato queste pagine, per me almeno, avvincenti, piene di fascino crudele e al contempo di vita reale.Molto belle le descrizioni dei luoghi da lei frequentati, non certo turisticamente raggiungibili, né raccomandabili. Insomma, grazie di averci portato uno spaccato di un mondo "altro", alla maggior parte di noi cosiddetti civilizzati, misterioso e sconosciuto. Saluti e buon lavoro.
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