mercoledì 8 febbraio 2012

Camillo Sbarbaro

CAMILLO SBARBARO   POETA DEL DESERTO   
Di Augusto Benemeglio

1.     I  licheni
Ecco  Camillo Sbarbaro, con la sua vita tenacemente appartata, con la sua solitudine da cercatore di licheni , con la sua esistenza immobile , eccolo il cantore di Pianissmo, il cantore di Trucioli , dare senso , dignità  e storia ad una condizione da minimo, da esiliato, da estraneo , da emarginato, da “frammento” ,che è in realtà la sua  grande lezione morale e letteraria di un italiano anomalo che  s’affaccio nel deserto della sua anima :“Nel deserto/io guardo con asciutti occhi me stesso”,  
Ma in realtà  – dice Carlo Bo – Sbarbaro non aveva nè lezioni da prendere , nè da dare, la sua scuola era diversa da tutte le scuole , non aveva pareti, non aveva maestri all'infuori della sua sensibilità, né gli interessavano i viaggi, tant’è che non si allontanò mai dalla sua terra, la Liguria: «Si fanno a un tavolo d'osteria i più meravigliosi viaggi»
La poesia – diceva  Bo - può essere pietra, fiore, arbusto o lichene: il compito è andare a cercarla, a coglierla, a estrarla, a catalogarla in un lento recupero, con un assiduo lavoro, con intensa ricerca e farsi contagiare. E il “marinaio” Sbarbaro,   salvato da un tremendo naufragio, travolto dalle tempeste, sballottato qua e là dalle onde, avvilito per l'umano stato di impotenza davanti alle forze della natura, ormai esausto e quasi annullato,  finì  per sentirsi quasi un privilegiato nel poter ancora avere tra le mani quelle misere rimanenze, quelle poche cose che s'erano salvate e potevano diventare simboli , strumenti  per difendersi dal mondo, per trasformare la diffidenza di un poeta in un ricercatore di licheni di riconosciuta fama internazionale, un poeta in simbiosi con la natura inerte: «Forse mi vado mineralizzando. Già il mio occhio è di vetro, da tanto non piango; e il cuore, un ciottolo pesante»
A chi , come Montale, gli chiedeva  perché i licheni , lui diceva che gli interessavano come forma negletta-povera- di vita, minimizzando la sua competenza specifica: “Sui licheni scrissi fin troppo, sempre cercando una spiegazione a questo hobby; nessuna conoscenza specifica, solo curiosità, piacere visivo, simpatia: la stessa che mi fa avvicinare tutto quello che non è vistoso, per gli altri senza importanza, misero».
 In una fredda giornata di dicembre del 1966,  poco prima di morire ,  Sbarbaro raccolse l'ultimo lichene, il Theolocarpon robustum Eitner, sulle rocce della stradina che da casa sua , a Spotorno , portava in campagna: per staccarlo con il suo scalpellino si arrampicò sulle pietre e scivolò. Era anziano, aveva settantotto anni.
Fu così grande la paura che contrassegnò con una croce il pacchetto contenente quell'ultimo lichene.  «La vita è disperazione perché non si lascia cogliere nel suo senso ultimo... la contemplazione è alla fine il solo modo di possesso che sia concesso alle creature» E poi concluse:  «In due casi il mio amore per i licheni soffre eclissi: quando sono innamorato e quando scrivo. Vide giusto allora chi senza conoscermi lo diagnosticò una forma di disperazione».
Nel suo eremo, il miracolo dei licheni, ("una muffa più un fungo", "due debolezze che fanno una forza") fu ciò che lo tenne radicato alla terra: per non sentirsi solo, per evocare un amore, perché  "in ogni lichene riconosceva una vita fraterna".

2.Il silenzio dell’anima

 Ecco Sbarbaro, uno che visse in discrezione e povertà  (aveva quattro libri, un tavolo, un letto ,  non volle mai nessuna comodità nella sua piccola casa  di Spotorno , in cui visse  ,spartanamente ,con la massima frugalità, insieme alla sorella  Clelia).
Ecco Sbarbaro, uno che  regalava meraviglie  per gli occhi di chi sa vedere , per chi sa sentire le cose col cuore , ma anche per chi cerca la verità nuda , un modo spoglio di esistere , senza illusioni .
Se andate al Museo di Scienze Naturali di Genova , ritroverete  la ricchezza infinita del suo erbario  e il suo ineffabile ritratto  di  uomo , scienziato e poeta  “minimo”, vivo testimone del nostro tempo ,  in costante lotta , tutta interiore , per immunizzarsi dai bla bla , dalle sirene della vita circostante , fino ad arrivare al momento del tacere, al momento del silenzio , da  perfetto eremita ; eccolo  davanti allo spettacolo  “minimale”  delle poche cose  che erano  davanti alla sua  casa, dove ascoltava  il silenzio dell’anima ,  il silenzio del mondo,  l’estraneazione  da  tutto , da sé e dalle cose, dal presente , dal passato e dal futuro , in una  condizione irrevocabile  , senza vie d’uscita. Eccolo , dinanzi al suo grande deserto: “ Taci, anima stanca di godere/ e di soffrire// Nessuna voce tua odo //come il corpo, ammutolita// in          questo grande deserto “


3.Leopardi e Baudelaire

Non vuole fornire analisi o diagnosi eppure inspiegabilmente il suo sgomento del vivere, il suo male di vivere, sarà  fonte di contagio per tanti dopo di lui, a partire da Montale. La linearità della sua poesia esprime una sorta di estraneità radicale alla vita, quasi un enigma minuziosamente ideato e composto, una misteriosa contemplazione senza contrasti e senza giudizi
Pianissimo è la morte dell’anima , è l’impossibilità di stabilire relazioni col mondo assumendo tutto ciò come fatto indiscutibile, con la severità ed assolutezza di una spietata autocoscienza: “ Tutta la mia vita è nei miei occhi / Ogni cosa che passa la commuove/ come debole vento un’acqua morta/. Io sono come uno specchio rassegnato/che riflette ogni cosa per la via./ In me stesso non guardo perché nulla / vi troverei.
Sembra che faccia una lugubre , spoglia , una secca meditazione della poetica di Leopardi con lo stile e la tradizione classica dei decadenti francesi , a partire da  Baudelaire,ma con accenti più rigorosi e disincantati. 
In realtà, qui, il centro dell'ispirazione  è l'amore del "resto", dello "scarto", la poesia degli uomini falliti e delle cose irrimediabilmente oscure e mancate: bolle di sapone, épaves, trascurabili apparenze, arsi paesaggi, strade fuori mano...«Sulla vertebra nuda della strada, sui monti calvi e calcinati l'aridità s'accanisce: e gli spruzzi di schiume amare del mare sono lo specchio di una simbolica vicenda personale».

4.  Restare giovani è scordare

Ecco Sbarbaro  dal discorso fatalmente  interrotto, frantumato , residuale , ecco Sbarbaro che vedeva un  mondo dove gli altri non vedevano nulla , o faticavano a veder qualcosa di interessante e, ecco Sbarbaro che non derogò mai  dalla sua intima connessione, dalla sua linea spezzata , uno  che pose a fondamento della sua poesia l'essenzialità e la purezza, e un suo incanto misterioso, in un mondo senza significato.:  Ognuno resta con la sua sperduta / felicità, un po’ stupito e solo, / pel mondo vuoto di significato».
A chi gli chiedeva  se era contento di sé,  Sbarbaro rispondeva con ironia: «... Io sono, per quel che è dato, un uomo felice perché non ho mai fatto nulla nella mia vita di faticoso , di sofferto , di costretto ;  ho fatto tutto  con mio piacere; e sono un uomo anche ricco, avendo più di quanto mi abbisogna..». In piena epoca di boom economico ( anni ’60) non aveva niente : né  telefono , né televisione , né frigorifero Sbarbaro amava l'isolamento nel quale viveva e non voleva assolutamente venisse turbato. La vita modesta affondava nelle sue radici, aveva tutto ciò che desiderava.  Un buon caffè, una passeggiata per procurarsi le verdure che più gradiva, pesce buono, ogni tanto una colazione a Borgio Verezzi, e voleva pagare tutto, non voleva favori perché – diceva - . solo ciò che non si paga costa . E gli amici? “Amico è con chi puoi stare in silenzio . Raramente lo vedi seduto , aveva sempre qualcosa da fare: nella vita – diceva - come in tram quando ti siedi è il capolinea .
  Ha attraversato la vita senza lasciarsi cambiare: le convinzioni son rimaste le stesse, senza cedimenti, senza rinnegare mai la propria natura, "a lui bastava il vivere com'era, talvolta crudele e spesso amaro"; superò i momenti peggiori, le crisi depressive, con la consapevolezza che «nella vita come in trincea alzi la testa e fischiano le pallottole», con l'amara considerazione che «restare giovani è la memoria che via a via si spoglia da sé dell'ombra, non ritiene che attimi di luce: una fiammata di papaveri, l'assolo di una cicala... restare giovani è scordare».
Ecco   Camillo Sbarbaro ,  voce nuda  e scabra della Liguria, poeta minimo, poeta dimenticato, che cerca di superare il lampo istantaneo, la sospensione, lo stupore , il rinvenire la propria esistenza nell’incontro con la propria terra, il “truciolo”, il sughero che galleggia nell’incerto mare, la scia della nave, lo sforzo d’ali:«Mi tocco per sentir se sono. / E l'essere e il non essere come l'acqua/e il cielo di quel lago si confondono»:
Eccolo, Sbarbaro che si specchia per l’ultima volta nel paesaggio arido della Liguria ( “questa  aridità mi sostenta//ma per dissolvermi”) , eccolo nel suo deserto, filo d’erba, lucertola, sasso, eccolo ad inseguire “la  vita che sfugge incompresa//se la parola che daccapo la vive non l’arresta e non ne esprime un suo volto”
Roma,  8 luglio 2011

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