lunedì 5 dicembre 2011

Ecco l'uomo ( c'è un solo modo per essere felici) di Fabrizio Centofanti

“ECCO L’UOMO”  DI FABRIZIO CENTOFANTI
C’è un solo modo per essere felici
DI AUGUSTO BENEMEGLIO


Ciò che mi opprime non si può curare; è la mia croce e devo portarla da solo, ma Dio sa quanto si  è incurvata la mia schiena per lo sforzo ( S. Freud)

1.Vivere l’istante.
Da quando Flaubert ha detto Madame Bovary sono io ognuno capisce  che uno scrittore  è sempre autobiografico, e che – quasi sempre – i personaggi del suo romanzo rappresentano se stesso, o alcuni aspetti della sua molteplice personalità, delle sue caratteristiche peculiari. Ma nel caso dell’ultimo libro di Fabrizio Centofanti, Ecco l’uomo, Effatà Editrice, 2011, la cosa è palese, oserei dire esplicita, tant’è che l’autore non si perita neppure di cambiare il  nome  del vero protagonista  del romanzo, don Mario Torregrossa, che è…
l’uomo del fuoco, del sole, dell’insonnia, della faccia chiara del mondo, la goccia d’inchiostro di sangue e di miele, colui che non è più tra noi , e tuttavia continua ad essere freccia conficcata nell’altare , vetrata luminosa , croce di pietra e legno con  nomi incisi tutt’intorno, memoria di memoria che si inventa una storia, cento , mille storie  di mani tese , di voci di gridi e coscienza per sciogliere il nodo del tempo dei nostri egoismi/classismi/razzismi  che non mutano ,nonostante tutto; lui è sempre lì, nel cielo della parrocchia , aquila e colomba , bosco pensante , lampada, lapis, coltello zampillo, benzina, rosso e nero , labbra annerite , il corpo che è uno straccio avvolto nel suo enigma nudo . 
E’ il quadro appeso alle nostre coscienze deboli , sta al chiodo , ancora al chiodo , sorridente , voce viva gioiosa e commossa nel cammino buio, nel pianto , nello smarrimento, nella solitudine senza limiti del prete, del cuore del prete , dell’essere più profondo del prete . E quanto il prete bruciato sia ancora presente , agisca con lo spirito potente della sua energia , lo scopriamo fin dalle prime pagine del libro , quando il novello padre Brown, don Davide , il prete metafisico incaricato di esperire indagini sulla sua possibile canonizzazione , legge il tema di una bambina della Parrocchia di San*** , dove si parla di  un viaggio a Loreto , il pullman di mezzogiorno, l’ora instabile , il  suono del sassofono , il  tunnel , il coro , la commozione , le lacrime, la frase magica del vecchio parroco ,   io credo, io spero, io amo ,

lo stupore, l’incanto, la gioia , le mani e la  coscienza del tempo senza limiti , la tenerezza di sentirsi uniti e amati , la scoperta degli assoluti , dell’eternità, -  oh, Dio! , quello era il paradiso , e  non era una cosa noiosa, immobile, statica , o un dolce per signore  inglesi  non più alla moda ; no, era energia pura , potente, fragorosa , il fascio di luce di un angelo grigio e scalcinato che suonava il sassofono e t’invadeva, “riflesso indecifrabile di materiale cosmico, di tenebra  e di luce , di galassie dai colori e dalle forme innumerabili, un messaggio ininterrotto di felicità ostinata , che  annunciava l’esistenza di Dio”.

Tutto ciò attraversa l’anima del prete detective , e , man mano che prosegue i suoi viaggi sulle tracce di santità  di don Mario , - Loreto e dintorni , Sirolo, Osimo, e poi  Firenze, Parma , Roma,ect, -  lo trasforma radicalmente, lo sconvolge , lo fa sentire inadeguato e indegno del sacerdozio , lo induce a lasciare il suo incarico tranquillo nella rettoria,  a liberare la sua energia nascosta in qualche parte oscura dell’anima, a togliere il freno a mano che bloccava la sua esistenza: apriti, corri, libera  la tenerezza e la forza che vogliono diventare vita  .

Da colui che cerca , don Davide è in realtà il trovato, o il ri-trovato ,  da colui che insegue è l’inseguito dalla grazia.“Ecco l’uomo”, dunque, don Mario Torregrossa. Era un santo? Alla fine il cardinale dirà:  La santità è qualcosa che ci sfugge , è come un sogno, ha una logica che sguscia come un pesce da una rete, come la felicità da un cuore che la pretende a tutti ii costi

Ma don Davide , che ricorda vagamente altre figure di religiosi , come ad esempio il pastore Ericsson di “Luci d’inverno” , il bellissimo film di Ingmar Bergman , o l’abbè Cénabre  di “Impostura” di Bernanos ,”incredulo per deficit d’amore” , o, infine , il famoso Padre Sergij dell’omonimo racconto di Tolstoj , i cui dubbi sulla fede sono un po’ quelli di tutti i credenti , non ha dubbi sulla santità di don Mario. Don Davide ,- figura ,sotto molti aspetti ,emblematica di sacerdote del nostro tempo, sottoposto a uno stress mediatico che ne svela  il rassegnato distacco , l’intima fragilità ,i fuochi quasi spenti di una vocazione,- si riscatta, si redime dalla propria passività e indifferenza, trova la propria strada  seguendo le piste , le tracce, i segni della santità (racconti , testimonianze ,fatti, presenze straordinarie e misteriose, sempre al limite tra sogno e realtà ) del prete siciliano. Sempre più attraversato da un’ansia di gioia e di felicità nuova, una rinnovata energia di conoscenza dell’inconoscibile , e insieme di ricerca del proprio destino ,  don Davide una cosa la capisce subito. Forse Don Mario  non ha insegnato nulla di particolare a nessuno, ma chiunque è venuto  a contatto con lui , con il suo spirito potente , è diventato  “qualcosa”, qualcosa  di vivo e concreto, è entrato  nella vita vera. E’ stato un po’ come camminare al fianco di Cristo sulla via di Emmaus: vivere l’istante che è eterno.

2. C’è un solo modo per essere felici
E qui, credo, potremmo già terminare la nostra presentazione di “Ecco l’uomo”, se non ci fosse un sottotitolo , che fa parte integrante del romanzo: “C’è un solo modo per essere felici, ed è tutto racchiuso  in quell’istante . Che è goccia di rugiada, grano di luce , abbraccio, fedeltà senza limiti ad un’idea, ad un progetto, ad uno scopo finale , che sta nell’altro e l’uno, il tutto : è l’amore , che è il tema di fondo , il substrato del romanzo , il messaggio più evidente , che l’autore reitera in ogni sua azione, in ogni suo gesto, in ogni suo scritto, in ogni sua omelia, sentendosi spesso ai margini del caos, nel grembo dell’oscurità , sempre… “in bilico tra un precipizio e l’altro , come tutte le cuspidi  ( non a caso è nato nella cuspide della sensibilità della settimana di Chopin e De Andrè, la più intensa dell’anno) , cristalli finissimi che un  respiro può ridurre in pezzi”.

Ormai lo sappiamo bene , Fabrizio Centofanti è uno scrittore che traffica ai margini del caos , là dov’è la complessità della creazione vera, autentica, - “un caos diventato faticosamente cosmo , ordine segreto delle cose”  - e  cerca sempre la parola giusta per nominare la sfumatura di sentimento di una musica, un quadro, un evento , una nostalgia, un rumore, un odore, un incontro;  aspetta l’andante che è la musica del paradiso, ma  qualche volta arriva una musica strana che non conosce  e non sa dire se sta più dalla parte della gioia o del dolore , se è stupore , nostalgia, o  rimorso, illusione , amarezza, speranza, liberazione. La parola , che  è fiore senz’ombra , che si apre in un là senza dove , che si estende dentro di noi , che si fa trasparenza , che regge le cose cadute. Riflesso delle cose sospese, fascio di mondi , istante , grappolo acceso, la Parola risvegliata nel suo cuore , una gran parola chiara , palpito di vocali , che gli è stata affidata dal Signore Iddio per farla fruttificare.  Il tutto lo fa di notte, rubando le ore al sonno, curvando la schiena, schiacciando le vertebre , rattrappendo gli arti , incidendo la propria pelle, e lo fa senza sconti, senza infingimenti, senza retorica. 
Don Fabrizio Cerca un equilibrio tra le sue due vocazioni,  il prete e, insieme, lo scrittore, le due cose sono un tutt’uno con l’uomo.  Scrive per bisogno, per necessità, per farsi un’anima , o un supplemento d’anima , in questi  tempi di tenebre , di assalti inquieti del Maligno , di cappotti neri e baveri alzati  che tramano nell’ombra , in un gran martellio , un picchiettio  di suoni ,  una lotta di metalli, una nera esplosione silenziosa , un dirupo di vetri  aguzzi ,  di invidie , gelosie , rabbia umana ; Fabrizio scrive con la notte che si sfalda in un gran rumore , che si strappa , che si lacera , scrive per cercare di far passare la luce  dell’alba , per fare ancora una capriola da primo mattino del mondo , o trovare la ragione di una caduta , insomma scrive  per amore ,solo per amore, nient’altro che per amore ,  e dopo, soltanto dopo, si conosce  un po’ meglio. “Io sono l’opera che ho realizzato . Di fronte ad essa mi interrogo come se interrogassi un altro”.
Ma non bisogna mai dimenticare che il suo discorrere umano , il suinterrogare se stesso  è destinato a dire l’indicibile senza tradirlo, ovvero che le sue parole sono prestate alla Parola, e che è continuamente e costitutivamente  chiamato a farsi evento di bellezza. E’ solo il rapporto fra fede e bellezza che può condurlo alla felicità,  quello è – per lui - il “solo modo per  essere felici”. 

3. La nostalgia del  gemello
Il “romanzo “, in questo caso , - anziché la consueta forma diaristica , - gli offre  la possibilità di un maggiore distacco per un’operazione quasi terapeutica . Ecco l’uomo” è  una trasfigurazione delle sue   esperienze vive e reali ,  ma anche  una serie di incontri con le proprie ombre , con se stesso, e con l’altro se stesso, -don Davide - , il suo alter ego .. Come don Mario , che aveva realmente un fratello gemello –  ( fu lui a risolvere il problema della pelle trapiantata  del sacerdote , a prezzo di lunghi dolori ,  dopo che un folle gli aveva dato fuoco ,procurandogli ustioni diagnosticate come fatali ) , così l’autore si  costruisce un gemello , che è poi l’eterna nostalgia che abbiamo tutti noi di avere un doppio su cui scaricare il senso della nostra solitudine e dell’angoscia contestuale alla vita, ma anche per cercare insieme a lui , abbracciati , la luce in un mondo di tenebra. Don Davide , secondo il parere di alcuni  suoi fedelissimi lettori , rappresenta   “l'uomo che Fabrizio sarà ora, l'uomo nuovo. E' l'unico scritto di cui non c'è neanche un accenno online come se , scrivendolo,  scrivesse veramente il suo diario "terapeutico".

E’ sul suo “doppio” che l’autore sembra porre le basi per  altre  eventuali “interviste” a se stesso. Nel frattempo don Davide ha acquisito nuova coscienza di sé, del suo essere prete vero , e chiede al Cardinale un altro incarico:    La vita è andare incontro ai drammi ,alle lacerazioni della gente, affrontare le contraddizioni, - lasciarsi mangiare dalla fame di senso che cresce sempre più - non voglio chiudermi nella torre d’avorio della meditazione . So bene che c’è un pane disceso dal cielo; ma c’è anche un pane che nasce dalla terra, - dai campi di grano divisi ingiustamente. Le chiederei di trasferirmi in una parrocchia di periferia Ho bisogno di darmi , di moltiplicare i talenti che qualcuno ha consegnato alla mia vita

Ed ecco l’uomo!, lui,  don**,  un  prete intensamente bello e nuovo, che possiede il senso eroico dell’esistenza  ed una illimitata capacità di carità ; un prete coraggioso e umile ,  fragile e intenso , che mette il suo straordinario ingegno di scrittore e predicatore -  i suoi “talenti” - al servizio degli ultimi, dei deboli, dei falliti , dei “meravigliosamente imperfetti” , i santi bevitori ( “il ventre di un miserabile ha più bisogno d’illusione che di pane”). “E’ uno  che si apre all’altro e lo accoglie” , che va sull’ambone per testimoniare la ricerca di una presenza di Cristo nel quotidiano, uno che “fotografa l’attimo dello smarrimento” che porta con sé  “quel soffio dello spirito che è impastato con la vita “, è uno che,  compromettendosi compromette.  E’  un  prete  che  cerca di risvegliare  le nostre coscienze sopite, e lo fa  giocando al rovescio , che fa carambole piene di immaginazione (la più perfetta delle scienze, diceva Baudelaire), che ti tira fuori la parte di te che pensa a chi ti sta vicino ,  che mette passione in tutto quello che fa , che niente lo spaventa e tutto lo ferisce , in polemica con un cattolicesimo che vuole ridurre la morale ad un igiene dei sensi e che porta le coscienze all’indifferenza e all’immobilità; è uno che combatte gli acquiescenti  , i cristiani di facciata , i rispettabili ortodossi sabbatari,  insensibili  ad accogliere qualsiasi idea nuova , pronti a paralizzare  ogni cosa che non rientra nei propri scopi, - vedi gli uomini col cappotto dal bavero alzato , che troviamo in questo  romanzo. 

Ma Fabrizio ha la sua schiera di soldati fedeli , è molto amato ,e non solo per il suo indubbio carisma , ma  per il suo sguardo chiaro, per la trasparenza che regge le cose , per il fascio di mondi che sa aprire con l’uso della Parola , per la capacità di trovare selve d’astri in cammino , sillabe erranti e segrete negli interstizi  dell’ombra , nelle note a piè di pagine, dov’è – forse - il segreto della felicità. La sua chiesa è sempre più piena , la gente affluisce da tutte le parti , vogliono afferrarlo , parlarci, chiedergli il miracolo consueto , ma lui , nella sua umiltà  e semplicità, sembra voler ripetere le parole del “diario” di un curato di Bernanos: So bene che non merito la vostra fiducia, ma, dal momento che mi viene data, so anche che non posso deludervi . Lo farò con  tutta la forza che mi è data , la forza dei deboli , dei fanciulli, dei sognatori, dei domatori di ingiustizie che nulla possono fare se non, come me ,  pregare, pregare e pregare “. :

E aggiunge di suo:  “Una cosa  posso  darti, il mio dolore. Chiunque tu sia , spero che ti basti”. 

4. Il primo romanzo . .
“Ecco l’uomo”  è il primo romanzo di Fabrizio Centofanti , dopo due  libri di saggistica, su Calvino, presentato al Viesseux di Firenze ,  e Rebora , e tre diari di  racconti , o frammenti, o tessere di mosaico  (   Guida  pratica per l’Eternità”, “Pre-tre-a porter”, “Non superare le dosi consigliate”), schegge  di vetro colorate , mazzi d’albe nella fratta , musica e fughe di passeri solitari , spiga di fiamme e giardini d’ossa , luminarie e cembali al vento , per i suoi funerali celesti . Ogni suo scritto è lo specchio dei suoi smarrimenti, delle sue angosce, delle sue delusioni , delle sue solitudini , delle sue notti di lacrime , ma anche del suo cuore ricolmo di fede , d’amore e di speranza , delle sue ginocchia macerate , delle sue mani piene di grani di rosario,  della sua pelle , non ancora bruciata , che offre in olocausto a Dio , perché il debole non può dare altro che la propria pelle  ( “Che senso ha dirsi cristiani se non si è disposti a morire per questa causa?).

Fabrizio è   noto anche al grande , vastissimo pubblico di internet ,   per la sua incessante presenza  sul blog , da lui ideato e diretto,  La poesia e lo spirito, costante punto di riferimento per tutti coloro che  credono ,  amano sperano e  rischiano puntate sulla  poesia , “la bellezza che salverà il mondo”? . E  non sono pochi, come si è portati a credere.  “La bellezza è fatta per il popolo ed esso è fatto per la bellezza”, scriveva Simone Weil. “Il popolo ha bisogno di poesia come il pane , ma non già la poesia racchiusa nelle parole; quella , in sé, non può essergli di alcun uso. Ha bisogno  che sia  poesia  la sostanza quotidiana della sua stessa vita. Una poesia simile può avere solo una sorgente. Questa sorgente è Dio. Questa poesia può essere solo la religione..”

Ed Ecco l’uomo , don Mario Torregrossa , che fa pensare al  Cristo e ad altri personaggi della Bibbia, a Giobbe , ad esempio , ridotto ad essere una piaga vivente. E cos’è don Mario , che sopravvive a tutte le malattie possibili , un tumore, tre ulcere, un ictus, due infarti, diabete, emorragia intestinale, neuropatia,  aggressione  di un  paranoico che gli dà fuoco , causandogli ustioni gravissime  , di solito fatali,   e  nonostante tutto ciò riesce a realizzare – senza possedere nessuna risorsa economica , ma fidando solo nella Provvidenza , che arriva  puntualmente : una serie di miracolosi benefattori che intervengono all’ultimo momenti a saldare debiti di cifre altissime –  un’opera  come il Centro di Formazione Giovanile Madonna di Loreto Casa della Pace che ha dell’incredibile, dello straordinario, del miracoloso e a che a tutt’oggi attende ancora un riconoscimento ufficiale.  Ma vicino a lui, ecco l’uomo ,  non un’ombra , ma l’amico sacerdote , il discepolo , il figlio spirituale , il fratello, il padre e la madre , don*** , che lo seguirà  passo passo nel suo calvario , fino alla sua morte: dodici anni da infermiere h. 24, dodici anni  di pillole, insuline, prove di glicemia, chiamate notturne, cannucce , analisi urgenti, mantelle , cibi da selezionare , risate di gioia e litigate furiose , dodici anni a spingere la sua carrozzella.  (Don Davide)  pensò a don***, alla sua fedeltà ostinata e dolorosa, al suo votarsi ad una causa difficile e incomprensibile per molti ; pensò alle persone che a vario titolo lottavano a favore o contro di essa, alle ferite, alle gioie, all’investimento di energie, al coinvolgimento del cuore che tutto questo richiedeva e che don Mario aveva sempre auspicato, convinto che altrimenti nulla avesse senso. Si chiese chi fosse quel prete che lo aveva costretto a guardare più in profondità, a rischiare e a compromettersi…

Ormai trasferito , a sua richiesta , nella Parrocchia di San*** il prete  rileva una serie di contraddizioni della vita pastorale, e chiede aiuto e conforto al Cardinale:   Noi dovremmo essere i modelli , eppure siamo segnati dalla fragilità esattamente come gli altri, anzi forse più degli altri, perché il peso delle responsabilità rischia di spingerci spesso a cercare vie di fuga. Dovremmo riconoscere che la vita fa acqua anche per noi. Credo che l’umiltà sia il dovere principale di chi guida il popolo di Dio e  che il tradimento non sia la caduta, ma l’arroganza come se il ruolo potesse rendere immuni dalla imperfezione universale. Il prete non è un superuomo…Le chiedo di aiutarci a non cedere al mondo che vorrebbe metterci su un piedistallo per farci cadere con violenza maggiore nella polvere. Non lasci che l’equivoco continui a minare i presbiteri, le assemblee pastorali, gli atti di una vita che  scava solchi tra il sacerdote e i laici, ponendo le basi di una solitudine che è la causa di ogni possibile caduta.  La prego, Eminenza, ci riporti con i piedi per terra, ci spinga a condividere con gli altri il rischio della bellezza e della fede.
 Cos’è  in realtà questo romanzo, mascherato da giallo , da thriller sul mistero della santità, sulle tracce della santità, con protagonisti  tre  preti e una multiforme bellissima donna  dagli occhi verde chiaro  , Flavia , tentazione della carne, sirena del potere,   segnale di un’illusione eterna che spinge a farsi guerra gli uni gli altri, invece di stringere un patto solidale ,  che vorrebbe  fare un bestseller interplanetario di un’idea letteraria di Don** che ha rintracciato il  presunto messaggio scritto da Dio  di cui è unico depositario , un messaggio  che  potrebbe  sconvolgere il mondo e il senso stesso del nostro vivere?  E’ una confessione , una passeggiata intorno alla propria prigione, come direbbe Marguerite Yourcenar , con incontri e sconti , una presa di coscienza ,  uno specchio dell’anima , una ricerca lucida e spietata della nudità dell’anima, un tentativo di mettere a fuoco tutto ciò che è ancora dubbioso, irrisolto, incompiuto, incoerente
C’è chi , come Stella Maria Cofano , vede in questa esperienza artistica di Fabrizio , in cui mette in gioco se stesso, con rigore e coraggio morale,come ha sempre fatto,  la metabolizzazione del suo grande dolore per la morte dell’amico , il dolore che giunge a maturazione , a compimento. Con questo romanzo si chiude un’epoca della sua vita , quella vissuta con don Mario e inizia a vivere senza contando su se stesso e la sua comunità., consapevole che lui gli sarà sempre accanto e sarà sempre importante ma ora è lui l'unico interprete del suo destino.

6. Vita da prete
Insomma, una specie di chiusura di bilancio  con un lungo arco di tempo . Ma se vogliamo , Fabrizio Centofanti, continua a scrivere sempre la stessa cosa , la sua Vita da prete. Una cosa ridicola, come aveva iniziato a fare sette anni fa, con Guida pratica all’eternità, libro prezioso che don Davide trova in un albergo di Loreto e si porta sempre dietro. Sembra facile alzare un prete. Con queste sedie di adesso, piene di sporgenze, diventa tutta una questione di gambe. Movimenti precisi, una danza che distribuisce il peso in proporzioni perfette, altrimenti addio colonna vertebrale. Mi sembra impossibile sollevare questa mole senza soccombere, rimanendone illeso.

Lo sforzo dell’alzare  un prete, - osserva qualcuno - non è quello di sollevare l’amico in carrozzina , ma sé stesso, oppure la Chiesa stessa , un po’ come rievoca Giotto nella volta della Chiesa di San Francesco d’Assisi. Ritengo che Centofanti – scrive Giovanni Nuscis - incarni perfettamente  la figura di un sacerdote che vive sul confine teso tra il qui e il lì, assorbendo gli urti di entrambe le dimensioni. Don*** ricorda quel tempo, ne parla con don Davide:
Con la faccia appoggiata alla sua spalla ,l’odore forte della pelle , la barba sempre ispida , le solite manovre millimetriche , le curve impossibili, le discese dai gradini… Prima ero io a spingere don Mario sulla carrozzina , a sollevarlo  per metterlo nel letto o farlo alzare, ora sento le sue braccia premere sotto le ascelle quando vorrei sedermi, rinunciare . ..Don Mario mi ha insegnato a non abbandonare la nave. 

Ma qual era il suo segreto? , chiede don Davide: Saper aspettare , dare fiducia anche contro l’evidenza , lasciare spazio all’altro anche quando aggrediva, mentiva , se ne approfittava , permetteva alla persona di prendere coscienza di sé e di cambiare...La parola chiave è pazienza.

E’per impazienza che abbiamo perduto l’Eden , soleva dire Kafka. La Pazienza è un monumento che non cede, è come la bilancia che pesa l’anima,  è obbedienza , rigore, disciplina , è una passione, è un transito, un trascorrere e un restare, una immobilità vertiginosa. E’ un giardino che ci portiamo dentro, difficile da coltivare. E’ l’altra riva , è un’architettura di suoni, una fabbrica d’aria. Lui era un collezionista di pazienza, come tutti i santi, e trasportava e cose in un mondo migliore, in cui esse  sono libere dalla schiavitù di essere libere.
Siamo alla fine del romanzo. don Davide si trova nella sala d’attesa del Cardinale. L’ha mandato a chiamare, e lui non sa perché. C’è da aspettare, gli dice il segretario. L’opera di scrittura è compiuta , con tutte le sue simbologie, la sua febbre, le sue mitologie, le sue incertezze , le sue ombre, le sue luci, i suoi misteri. Non sapremo mai se il Cardinale formalizzerà il riconoscimento dell’opera di don Mario in favore dei giovani e il trasferimento della salma nella Chiesa di San*** da lui edificata; non sapremo mai se sarà avviato un processo per la canonizzazione del santo bruciato .E tuttavia don Davide , alter ego dell’autore , avverte una strana leggerezza , una beata fiducia, un senso di felicità.  Per un istante comprese che Dio è un ragazzo dallo sguardo smarrito , abbandonato al Cottolengo, dimenticato da tutti, eppure ancora capace di abbracciare. (pag) .

Qualsiasi opera , sia pure frutto della disperazione – diceva Thomas Mann – non può avere come sostanza ultima altro che l’ottimismo , la fede nella vita , e reca già in se stessa la trascendenza della speranza”. Leggendo questo romanzo dobbiamo, abbiamo l’obbligo di essere “ prigionieri della Speranza”  Ed io queste parole di Zaccaria le sento nell’eco di quelle di don Fabrizio , nella musica del suo silenzio: ““ Il cuore , il cuore ha il potere di cancellare tutto, quando può stringere il suo sogno.

Roma, 7 deicembre 2011                                       Augusto Benemeglio  *

** Presentazione a Palazzo Congressi, nell'ambito della Fiera del Libro.

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